L’oppressione femminile nella moda: il corsetto.

L'oppressione femminile nella moda: il corsetto. Nell'immagine un corsetto diventa gabbia e imprigiona una donna

In ambito vestimentario, il corsetto nasce come camiciola esterna tenuta rigida da una stecca per modellare e contenere il tronco e la vita. Diventa poi indumento intimo steccato e allacciato strettamente al busto. Fin da subito questo indumento, che obbligava a muoversi in modo lento e armonioso, viene percepito come un vero e proprio strumento di tortura, al quale però la donna del tempo ben si sacrificava. Eppure non si trattava solo di un ornamento.

ORIGINE E SIGNIFICATO SOCIALE DEL CORSETTO

I primi corsetti come li conosciamo oggi compaiono nel Rinascimento, quando le corti italiane dettavano legge in campo di moda. Le preziose stoffe prodotte in Italia richiedevano un sostegno per essere drappeggiate, ed il corsetto rispondeva a questi bisogni: realizzato in resistente canapa, armato di stecche di legno e avorio (ma anche ferro) e imbottito, stringeva il busto ed esaltava il seno.

Dalla fine del Settecento, con l’affermarsi della borghesia, questa costrizione viene accentuata dalla differenza di significato sociale fra divisa maschile e femminile. La prima, un tempo ricchissima per stoffe e taglio, ora doveva simboleggiare sobrietà, impegno politico e lavorativo. Per questo diventa uguale per tutti (ed evolverà nel completo che ancora oggi è indossato) ed adotta colori scuri o neutri. La seconda era incaricata solamente di testimoniare il successo maschile, diventando oggetto di spese lussuose e ostentatorie. Gli uomini borghesi possono così mostrare la loro ricchezza tramite l’abbigliamento delle mogli.

Le donne borghesi non avevano spazio pubblico (anzi, dovevano disinteressarsi della politica e della vita sociale per non intaccare il prestigio del marito) ed erano strettamente vincolate alle mura domestiche e alla famiglia. Di riflesso, l’abito era estremamente rigido: vestite con abiti pesanti e avvinghiate dal corsetto, erano impossibilitate a svolgere qualsiasi attività produttiva. D’altronde, potersi permettere di non lavorare era ritenuto un lusso invidiabile. Dice Veblen in “La teoria della classe agiata” (1899):

“Poiché il lavoro produttivo è particolarmente disdicevole per una donna rispettabile, nella creazione degli abiti femminili si dovrà porre una speciale attenzione affinché all’osservatore resti impresso il fatto […] che la donna che li indossa non è e non può essere impegnata in lavori utili”.

Una tenuta del genere non permetteva nemmeno attività ricreative come lo sport e molte non adottarono gli abiti creati ad hoc e innovativi come la “bycicle suit” (veste da bicicletta), concepita per consentire una pedalata più facile e costituita da una giacca con calzoni biforcuti.

I PRIMI SEGNALI DI CAMBIAMENTO

Molti intellettuali verso fine XIX-inizio XX secolo insorgono a favore di una riforma dell’abbigliamento della donna per emanciparla fisicamente, specialmente in Inghilterra e Germania. La “Rational Dress Society” (fondata nel 1881 dalla viscontessa Haberton) proponeva ad esempio l’uso di pantaloni alla turca o gonne-pantalone in nome della salute e dell’igiene. Sono tantissime infatti le testimonianze di donne che svenivano (complici anche il caldo delle sale da ballo in cui si recavano) e numerosi sono le illustrazioni e i pamphlet che elencavano le controindicazioni del corsetto stretto al limite: le donne rischiavano la deformazione degli organi e persino la sterilità (problema che faceva presa all’epoca, dato che mettere al mondo un figlio era ritenuto uno dei compiti fondamentali della moglie). Anche singoli couturier come Mariano Fortuny, Paul Poiret e Madeleine Vionnet elaborano tecniche e tagli che permettevano all’abito di essere “decoroso” ma meno costrittivo tramite l’assenza di busti o altre sottostrutture rigide.

Con la prima guerra mondiale e, successivamente, l’imporsi del prêt-à-porter, il busto verrà progressivamente chiuso nell’armadio. È vero che Dior lo riprende nella celebre collezione del 1947, che inaugura il New Look: i suoi capi richiedevano il corsetto ed erano talmente pesanti da costringere chi li portava all’immobilità forzata, proprio come in passato. Infatti questi abiti vengono contestati dalle associazioni femministe dell’epoca e soprattutto non hanno presa sul mercato americano, in cui era difficile per le donne (che avevano conquistato il diritto a votare, guidare e lavorare) accettare di nuovo busti con stecche di balena. Eppure lo scatto in avanti era evidente: il corsetto non era più un capo che demarcava uno status sociale o imponeva un ruolo alla donna. Era ormai un elemento stilistico, decontestualizzato e rimosso dal suo ruolo originario. Non più costrizione per sottolineare una inferiorità ma caratteristica di tendenza per essere alla moda.

E OGGI?

Il corsetto steccato non è da decenni parte obbligata del corredo intimo femminile: ci sono versioni meno stringenti in commercio, oppure viene indossato come costume (feticismo, burlesque etc.). È stato riproposto da moltissimi stilisti, come Vivienne Westwood, Saint Laurent o Gaultier (celebre il suo corsetto del 1991 per Madonna) ma sempre come simbolo di liberazione e sensualità, non costrizione.

Oggi è il suo discendente che sta diventando oggetto di contestazione o abbandono: il reggiseno. Nato proprio come alternativa meno asfissiante al corsetto, oggi è da molte ritenuto un obsoleto strumento costrittivo. Nonostante le centinaia di tipologie e modelli disponibili, non sono in pochi a ragionare su una sua eventuale scomparsa dai cassetti della biancheria delle donne. I motivi sono principalmente due: questioni di comodità e/o perché molte ritengono che quelli disponibili in commercio non esaltino il loro seno. Eppure non bisogna dimenticare le esigenze di salute. Victoria Shelton, tecnologa degli indumenti, ha recentemente dichiarato al Daily Star britannico che

“il nostro seno ha bisogno di supporto. A causa del peso possono insorgere dolori alla schiena, problemi posturali e danni alla mammella”.

Mentre il corsetto ha ormai perso il suo ruolo di capo vilificatore della donna, se ne sono affermati altri che fanno sentire le loro indossatrici costrette o oppresse. Ma la voce delle donne si fa sentire: pur tutelando la salute e lo stile bisogna sempre avere un occhio critico verso gli indumenti che indossiamo ogni giorno, magari inconsciamente, ma che non ci fanno sentire effettivamente libere.


Articolo di Giulia Maiorana, immagine di Claudia Valentini.

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