Donne scomode e come zittirle sui social media.

Donne scomode e come zittirle sui social

“Noi parliamo il mondo e intanto il mondo ci parla,

noi ci rappresentiamo noi stessi e intanto quello che noi siamo,

senza saperlo, si rappresenta nel nostro parlare.”

Luisa Muraro

In un breve dialogo con l’attivista Irene Facheris, il filosofo femminista Lorenzo Gasparrini, ospite del podcast Palinsesto femminista, riassume efficacemente l’essenza della “mascolinità tossica”:

“Il patriarcato ti dà i motivi per essere arrabbiato e l’obiettivo da colpire con la tua arrabbiatura (…), ti dà l’arma e l’obiettivo. Bisogna imparare a capire che tutti e due vengono dalla stessa parte”.

Lorenzo Gasparrini

Nel corso del tempo abbiamo imparato a tollerare questa “tossicità”, a conviverci, a sfogare odio e frustrazione sui social media, trasformando un prezioso strumento di connessione umana in un campo di battaglia. Questo breve scritto parte da queste considerazioni, ma anche dalla consapevolezza che grazie allo studio, all’empatia e alla forza di alcune voci che resistono, l’attenzione nei confronti delle tematiche da sempre care al femminismo intersezionale sta crescendo. Non è un caso, infatti, che le scrittrici, le filosofe, le attiviste siano fra i bersagli prediletti dell’odio online: attaccare sembra l’unico modo per delegittimare non solo le posizioni ma anche la professionalità, la competenza, la dignità di queste donne. Per questo ho scelto di trattare di una delle tipologie di testo più rappresentative del modo in cui queste tattiche di delegittimazione vengono attuate, diffuse, interiorizzate: gli scambi di commenti sotto ai post sui social media. La speranza è che diventi man mano più semplice riconoscere queste strategie, prenderne le distanze e, infine, condannarle. 

I social network sono, com’è insito nella definizione, reti di relazioni sociali.  A differenza dei media tradizionali, sono caratterizzati dal fatto che fra l’utente e il media si stabilisce una vera e propria interazione. In tal senso, possiamo definire ogni singolo social media come una semiosfera, ossia una rete di codici comunicativi: il ciclo dei contenuti, dalla loro produzione alla fruizione, insieme al sistema linguistico adottato e alle regole (interiorizzate dall’utente o imposte dalla piattaforma) che regolano gli scambi comunicativi, ci permettono di dedurre le caratteristiche di una determinata cultura. La scrittura assume una funzione di completamento (specialmente in piattaforme come Instagram), eppure mantiene il potere di chiarire il messaggio, di guidare verso una corretta decodifica. Con gli strumenti che il linguaggio ci offre siamo in grado di fare pressoché qualsiasi cosa: imporre un’azione, raccontare una storia, proporre un indovinello, creare mondi possibili. Certo, questo “peso” non ricade esclusivamente su chi emette il messaggio, anzi. Il destinatario può assumere atteggiamenti diversi: la modalità di lettura che mi pare adattarsi all’oggetto della nostra indagine è quella “resistente”, che mira esclusivamente alla decostruzione del testo. Nel momento in cui pubblichiamo qualcosa su un social media, quel post chiede di essere commentato e, dunque, interpretato: chiede, insomma, che l’utente compartecipi alla costruzione di senso. 

Le rappresentazioni di genere veicolate da dispositivi di potere, quali i media tradizionali e i social media, hanno una rilevanza crescente nella produzione (e nella fruizione) dei modelli di genere, a tal punto che sembra non avere più senso una distinzione netta fra media e società. 

Luce Irigaray parla di «soggettività denegata alla donna […]: oggetto di rappresentazione, di discorso, di desiderio», tendenza ancor più evidente sui social media, dove la rappresentazione del genere femminile può apparire contraddittoria. I meccanismi dello sguardo e le pratiche di osservazione caratteristiche del male gaze coinvolgono il soggetto femminile nella sua dimensione corporale attraverso un processo di ipersessualizzazione, ma non soltanto. Per estensione, lo sguardo maschile si impone sulle soggettività femminili a tutto tondo, divenendo quasi un filtro attraverso cui esperire la realtà e produrre senso. Come si manifesta nella vita quotidiana? Nel machismo, nella mascolinità tossica, nel revenge porn, nella maggior parte della pornografia; ma anche nei proverbi, nel mansplaining, nella resistenza all’utilizzo dei femminili professionali e nel cosiddetto sessismo benevolo (“le donne non si toccano nemmeno con un fiore”, “gli uomini devono essere forti e proteggere la loro donna”). E così via. 

Vorrei proporre, adesso, alcuni esempi di commenti che, in fase di raccolta, fra Facebook, Instagram e YouTube, ho trovato più rappresentativi delle tendenze comunicative che abbiamo già intravisto, un vero e proprio micro-repertorio di violenze verbali, che puntano esclusivamente alla distruzione e alla delegittimazione del ruolo, dell’autorevolezza, della competenza delle singole personalità prese di mira e, per estensione, di tutto il genere femminile. La tematica costante è quella del sesso, nelle sue molteplici manifestazioni: l’oggettificazione del corpo femminile, lo slut shaming, il giudizio sulle abitudini sessuali (sulla loro mancanza o sulla loro “eccedenza”). Di seguito, due commenti dall’account Instagram di Carlotta Vagnoli, sex columnist e attivista femminista:

“Ma questa continua esibizione del corpo? La linea tra esibire e mostrare è molto sottile … una donna può nostrarsi anche vestita … un uomo non ha bisogno di foto nude/mezze nude per affermarsi … questa è la parità”

“Sempre più nuda e tatuata… Alla faccia della sbandierata dignità delle….”donne”. Sai fare anche altro nella vita? 😉 Chiedo per un amico… Ahahah…Per la felicità di tutti i mdd del web dalla mano amica. Ahahaha…”

A tal proposito, mi sembra utile ricordare la nozione di «scopofilia», usata negli anni Settanta da Laura Mulvey per indicare come il piacere dello sguardo, in una società patriarcale, appartenga esclusivamente alla dimensione maschile. Per comprendere pienamente il suo funzionamento, bisogna tenere conto della duplice direzione che segue la tattica di delegittimazione basata sulla sessualizzazione del corpo: mostrare il proprio corpo sui social (se il corpo è considerato appetibile in senso standard) equivale ad avere abitudini sessuali libertine e a voler attirare l’attenzione, mentre mostrare un corpo al di fuori dei canoni prestabiliti equivale ugualmente a voler attirare l’attenzione, ma su un corpo che non la merita, se non per essere deriso. Alla delegittimazione per abitudini sessuali (“sei una tr**a”) e a quella per mancanza di abitudini sessuali (“una bella sc****a ti farebbe bene”), si affiancano quindi quella per aspetto fisico (“sei troppo magra”, “sei troppo grassa”, “sei troppo attraente”, “sei troppo poco attraente”) e per età (“sei troppo vecchia”). 

L’attacco alla professionalità è un altro leitmotiv dei commenti sui social media, una delle molteplici manifestazioni della radicata convinzione secondo la quale informarsi su Internet, magari leggendo a nostra volta dei commenti o limitandoci al titolo di un articolo, sia bastevole a renderci persone esperte in qualsiasi settore. Uno di questi è la linguistica, che negli ultimi anni, fra l’avvento di petaloso e la polemica sui femminili professionali, si è ritrovata improvvisamente alla ribalta. E così, sembrano essersi moltiplicati i linguisti. 

Ecco alcuni commenti al video, pubblicato su YouTube, del TEDx Il potere delle parole giuste, tenuto da Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer e in linguaggio inclusivo. 

“Sì, ma non incazzarti”

“ottima lezione ma lei non mi piace per niente, non riesce a creare empatia : ha un modo di esprimersi incazzoso, sembra aggressiva. Dovrebbe studiare un po’ IL LINGUAGGIO DEL CORPO, non solo le parole…..”

“perdonami, credo che dovresti bere un bicchiere di vino prima di fare un video. ti aiuta a liberarti e dare un senso. sembra che leggi senza spirito.”

“guarda, a me stai sui maroni e possiamo andare avanti all’infinito credimi, fallita repressa e frigida”

 Anche in questo caso, non ci stupiamo della ricorrenza di elementi dichiaratamente sessisti, accompagnati dalla critica alla presunta incapacità di comunicare adeguatamente i concetti. È interessante notare come la mancanza di professionalità, in parecchi casi, sia in un certo senso attribuita al nervosismo di cui viene tacciata Gheno. Del resto, un’altra delle tattiche di demolizione più gettonate è quella basata sull’accusa di isteria (“sei pazza”, “datti una calmata”). Questi commenti evidenziano un altro tratto ricorrente delle interazioni conversazionali sui social media: nonostante Gheno sia una professionista e, dunque, lo scambio si svolga fra interlocutori che non si pongono sullo stesso piano gerarchico, la cornice del social media non solo permette, ma agevola il fatto che ogni utente possa mantenere un ampio margine di autonomia nell’interazione, anche se non possiede (che ne sia cosciente o meno) gli strumenti per intrattenere una conversazione paritaria sull’ argomento. 

            In questo breve scritto ho cercato di offrire una panoramica degli atteggiamenti comunicativi che, nella mia esperienza di utente dei social media e di lavoratrice del settore, ho imparato a riconoscere come pervasivi e trasversali. Si tratta di uno strumento che, se maneggiato con cautela, può offrire uno spazio di libertà unico in cui conoscere e conoscersi. È per questo che una critica cieca nei confronti del loro funzionamento non solo non avrebbe fondamento, ma distoglierebbe dalla conoscenza profonda di una parte fondamentale e caratterizzante del nostro essere umani oggi. Nella speranza che si impari a prestare attenzione, perché l’odio non trovi ulteriore spazio. 


Articolo scritto da Chiara Paterna, immagine di Marina Ravizza.

Pubblicato da Chiara Paterna

Nasco a Palermo nel 1996, dove vivo fino ai vent’anni. Lì frequento il liceo classico, militando nel collettivo studentesco senza troppi risultati. Mi laureo in Lettere moderne e subito dopo mi trasferisco a Torino, un po’ per studiare e un po’ per il vino e il formaggio. Qui, mi laureo in Letteratura, filologia e linguistica italiana con una tesi di ricerca sull’eredità leopardiana nella produzione di Cesare Pavese. Nel frattempo, cucino a più non posso, guardo tantissimi film, leggo un mare di libri, collaboro con il Centro studi Gozzano-Pavese e adotto un cane, che chiamo Monella. Fino a quando non incontro un holdeniano e, insieme a lui, fondo Voce del Verbo. Dopo qualche incarico breve ma intenso, oggi lavoro come copywriter e, non contenta, studio per un’altra laurea in Sociolinguistica, interessandomi principalmente di linguaggio inclusivo. Da grande voglio diventare una cattiva femminista. Ho pubblicato un intervento nel volume Leggere la Lettera. Il maestro don Lorenzo Milani 50 anni dopo e degli articoli per Pangea e Rivista Blam.

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