L’altra storia: quella delle computer girls

Alan Turing. Bill Gates. Steve Jobs. La storia del computer sembra opera dell’uomo, ma non è proprio così.

Chimamanda Ngozi Adichie in The danger of a single story dice:

“Raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia.” 

E allora oggi voglio raccontarvi l’altra storia sugli albori dell’informatica, quella che non troverete – ahimè – sui libri di scuola e di cui le vere protagoniste sono state le donne.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, sei giovani matematicheJean Jennings Bartik, Frances Elizabeth Snyder, Kathleen McNulty, Marlyn Wescoff, Ruth Lichterman e Frances Bilasfurono chiamate a lavorare alla creazione del primo calcolatore elettronico per un progetto segreto del Ministero della Difesa degli Stati Uniti: l’ENIAC. Le sei brillanti menti progettarono tutto il software e misero un primo mattoncino sulle fondamenta della moderna programmazione, eppure il loro prezioso contributo fu dimenticato e nelle foto furono indicate come Refrigerator Ladies, modelle usate per pubblicizzare il computer, come si usava fare per gli elettrodomestici.

Nel frattempo, gli ingegneri che avevano lavorato all’hardware del calcolatore si prendevano tutti i meriti.

Se conosciamo “l’altra storia”, dobbiamo ringraziare Kathy Kleiman, programmatrice e studentessa di Harvard, che negli anni Ottanta portò alla luce il lavoro delle matematiche.
Dopo la guerra, la programmazione passò dall’esercito al settore privato, ma le donne continuarono a esserne pioniere. Negli anni ‘50 e ’60 i calcolatori non avevano né tastiere né schermi; programmare voleva dire scrivere a mano il programma su carta e tradurre ogni istruzione in una serie di piccoli fori su una scheda. Questa veniva poi data in pasto al computer che produceva i risultati, anche se spesso non erano quelli sperati. A chi programmava si richiedeva precisione, scrupolosità e attenzione. Un lavoro che veniva considerato umile e noioso – la vera gloria stava nella costruzione fisica dei macchinari – alla stregua di quello di una segreteria, motivo per cui si riteneva che le donne fossero più idonee.  

Tra queste donne c’era Mary Allen Wilkes, una delle programmatrici più in gamba dell’epoca. Wilkes lavorò presso il MIT Lincoln Laboratory ai progetti IBM 704 – il primo calcolatore in grado di eseguire calcoli in virgola mobile a essere prodotto in massa – e IBM 709, finché nel 1961 fu assegnata alla creazione del LINC, uno dei primi personal computer interattivi del mondo. Dopo dieci anni di onorato servizio come programmatrice, riuscì a realizzare anche il suo sogno primario: diventare un’avvocata. Conseguì una laurea in Legge ad Harvard e dal 1972 iniziò a praticare dedicandosi a cause legali nel settore informatico.


A Grace Hopper, matematica, informatica e militare statunitense, si devono altre importanti invenzioni:

  • la realizzazione del primo compilatore della storia, ovvero un programma informatico che traduce una serie di istruzioni scritte in un determinato linguaggio di programmazione;
  • la creazione del FLOW-MATIC, un compilatore contenente parole chiave in lingua inglese molto più semplice da usare, che sarà alla base del COBOL, il linguaggio di programmazione creato sempre dall’informatica statunitense e usato ancora oggi (i software scritti in Cobol sono alla base del funzionamento dei bancomat).

Nello stesso team impegnato con Hopper sul COBOL lavorò Jean E. Sammet, che nel 1961 entrò in IBM e diresse il programma di sviluppo per il FORMAC, un sistema algebrico che si affermerà come il primo linguaggio per la manipolazione algebrica delle formule matematiche.


Frances E. Allen, informatica espertissima nell’ottimizzazione del linguaggio Fortran, può vantare ben due primati: fu la prima donna a diventare socia dell’IBM e la prima a vincere il premio Turing.

Della canadese Arlene Gwendolyn non ricordiamo solo che fu la prima donna nera a ricoprire il ruolo di programmatrice, ma anche le parole che disse a suo figlio:

“È stato facile. Al computer non importava che fossi una donna o una persona nera. Per la maggior parte delle donne è stato molto più difficile”.

Ci fermiamo qui, ma ci sarebbero tante altre storie da raccontare.

Nel 1967 Cosmopolitan pubblicò un articolo intitolato “The Computer Girls” in cui si sottolineava come questo fosse uno dei pochi settori in cui le lavoratrici potevano guadagnare molto bene (20.000 dollari all’anno, circa 150 mila dollari oggi) e vivere una sorta di riscatto sociale, nonostante la cultura del tempo precludesse alcuni ruoli anche alle laureate.

Eppure lo stereotipo di genere, che ha penalizzato le vite e le carriere di queste donne, è stato allo stesso tempo fautore dei loro lavori. Alle donne fu assegnata la programmazione perché si sosteneva che le capacità logiche e matematiche fossero affini alla loro tradizionale abilità nello svolgere lavori di precisione come la tessitura e la maglia.

Nel libro “Your career in computing”, uscito nel 1968, si affermava che le persone che amano cucinare seguendo un libro di ricette sono anche brave a programmare.

E tutto questo solo perché l’attività che veniva considerata di maggior valore e interesse era l’hardware, mentre occuparsi del software era ritenuto subalterno e noioso.

Eppure, una volta costruito il computer, erano le donne a farlo funzionare davvero.

Per saperne di più
Ti consiglio di leggere le fonti su cui mi sono basata per scrivere questo articolo e di guardare il talk di Giulia Tosato tenuto in occasione di Codemotion 2021.

Fonti:
https://www.nytimes.com/2019/02/13/magazine/women-coding-computer-programming.html

http://www.donnescienza.it/wp-content/uploads/2017/12/MD72_01_L_informatica_non_e_un_paese_per_donne-1.pdf


Articolo di Sabina Scoma, immagine di Marina Ravizza.

Imparare una nuova lingua come buona pratica inclusiva

Tra i suoi innumerevoli benefici, imparare una lingua straniera può anche aiutarci a fare un passo in più verso l’inclusività. A partire dal linguaggio, naturalmente, ma non solo. Come?

In teoria

Sembrerà banale affermarlo ma imparare una nuova lingua apre la mente e allarga gli orizzonti. Ci regala un accesso privilegiato alla mentalità, al modo di pensare, alla visione del mondo e alla cultura di un altro gruppo di persone. Ci dà modo di confrontarci e interagire in modo diretto (cioè non mediato dalla traduzione) con i mezzi espressivi di quei parlanti, dalla letteratura al cinema. Ci insegna a riconoscere e rispettare la diversità e lasciarci arricchire dalle differenze.

Ma c’è di più. Secondo il principio della relatività linguistica, la lingua ha il potere di influenzare la visione del mondo o, quanto meno (citando da qui), di “dirigere l’attenzione dei parlanti su certi aspetti dell’esperienza anziché su altri”.

Senza tecnicismi né estremismi, possiamo dire che se non abbiamo una parola per definire qualcosa, ci è più difficile percepirla e inquadrala con contorni netti, e viceversa: se un popolo non è mai entrato in contatto con un dato concetto, non ha mai avuto la necessità di trovare una parola per indicarlo. È in questo senso, ad esempio, che è importante insistere sull’uso dei femminili per indicare le professioni: parlare di sindaca e avvocata aiuta ad abituarsi all’idea che questi ruoli possano essere ricoperti anche da donne.

Imparare un’altra lingua ci permette di pensare anche nei suoi termini, tramite le sue strutture e le sue parole, persino quelle intraducibili e inesistenti del nostro idioma.

In pratica

Quando studiamo una nuova lingua, entriamo in effetti in contatto con le sue specifiche strutture grammaticali, sintattiche e lessicali.

Un esempio molto immediato sono i generi grammaticali. Se impariamo il tedesco o il russo, dobbiamo allenare la mente a pensare attraverso tre generi diversi (maschile, femminile, neutro). Approfondendo l’inglese, (ri)scopriamo che i sostantivi non si differenziano in base al genere e che si sta diffondendo l’uso del singular they per non dover specificare il genere di una persona (evitando quindi di scegliere tra he o she). Accostandoci al finlandese, apprendiamo che è una lingua senza generi, con la possibilità di aggiungere prefissi o suffissi quando è necessario precisare il sesso di una persona o un animale.

Tutto questo ci costringe a riflettere sulla nostra lingua e sui meccanismi che attiviamo quando comunichiamo. E ci ricorda che i termini in cui pensiamo noi non sono necessariamente universali. Ci regala, in definitiva, una maggiore competenza e consapevolezza in materia linguistica e comunicativa. E aggiunge qualche prezioso elemento alla nostra “cassetta degli attrezzi” da cui attingere per esprimerci con sempre maggiore precisione, attenzione e inclusività in qualunque contesto e in qualunque lingua.

In definitiva, diamo il via a delle importanti pratiche di modellazione, arricchimento, riflessione e ripensamento della parola come mezzo. Perché al di là di espedienti più o meno meritevoli di attenzione come schwa e asterischi, io credo che la vera capacità inclusiva di una lingua (e perciò di chi la parla) risieda nella sua plasticità e capacità di adattarsi al bisogno.

E di allargare, un poco alla volta, anche lei come noi, i propri orizzonti.


Articolo di Chiara Foppa Pedretti, immagine di Marina Ravizza.

Non chiedeteci di abbassare i toni: cosa è e come riconoscere il tone policing.

Nel settembre del 2020, Rosena Allin-Khan, parlamentare inglese e dottoressa specializzata in rianimazione, in prima linea nelle corsie ospedaliere durante la pandemia, ha preso la parola alla Camera dei Comuni di Londra, rivolgendosi direttamente al Segretario della Salute Matt Hancock. Quando Allin-Khan ha accusato il governo di aver affrontato l’emergenza da Covid-19 in modo inadeguato, con il risultato di migliaia di perdite di vite umane, Hancock non ha saputo come reagire se non invitandola ad abbassare i toni.

L’episodio (che è stato ripreso ed è possibile guardare sul sito dell’Indipendent) non è altro che il perfetto e famoso esempio di un fenomeno che tutte le categorie marginalizzate vivono sulla loro pelle quotidianamente: il tone policing.

Calmati, così possiamo avere una conversazione da persone adulte.”

Non pensi di essere eccessiva?”

Certo, capisco il tuo parere, ma forse faresti meglio a parlarne civilmente.”

Quante volte ci siamo sentite ripetere una di queste frasi – sul lavoro, in famiglia, perfino da utenti senza volto sul web – quando abbiamo condiviso il nostro punto di vista senza nascondere o censurare le nostre emozioni? È semplice individuare il denominatore comune: non si mette quasi mai in discussione quello che diciamo, bensì il modo in cui lo facciamo.

Il tone policing (conosciuto anche come tone trolling, tone argument e tone fallacy) è una forma di micro-aggressione verbale che avviene quando una persona in una posizione di privilegio si sente in diritto e addirittura in dovere di silenziare l’interlocutorə, se proveniente da un background svantaggiato. In questi casi, quello che viene criticato e attaccato non è il messaggio stesso – che passa totalmente in secondo piano – bensì il modo con cui questo viene comunicato, specie quando sono coinvolte rabbia, tristezza, frustrazione, paura e altre emozioni percepite negativamente che, tuttavia, dipendono proprio dalla questione che si sta affrontando.

L’espressione tone policing ha cominciato a essere usata nel 2015 nei centri culturali statunitensi, per poi diffondersi grazie a un fumetto pubblicato su Everyday Feminism con il titolo “No, we won’t calm down – Tone policing is just another way to protect privilege”. Tuttavia, noi donne siamo vittime di questa pratica da ben prima che avesse un nome: da sempre ci sentiamo dire che stiamo esagerando, che siamo pazze, che dovremmo farci una risata e soprattutto smetterla di prendercela così tanto. Affermando questo, si sta implicando che l’unica discussione degna di essere portata avanti sia quella che si svolge con calma, come se emotività e raziocinio non potessero coesistere ma si escludessero a vicenda. Non è così: non siamo robot, ed emozionarci quando parliamo di qualcosa che ci sta a cuore e che ha un impatto sulle nostre vite non ci rende meno degne di essere ascoltate. Inoltre, è sbagliato considerare le conversazioni come dibattiti in cui le due parti espongono punti di vista opposti in modo neutrale, con l’obiettivo di arrivare a un accordo comune: ci sono argomenti che richiedono una presa di posizione, e ce ne sono altri che si possono esplorare senza dover per forza giungere a una soluzione.

Il tone policing non è cosa tristemente nota solo alle donne, ma a chiunque faccia parte di una minoranza, come le persone con disabilità, quelle della comunità LGBTQIA+ e soprattutto BIPOC. Storicamente a essere più colpite da questo fenomeno sono proprio le donne nere: il tone policing nei loro confronti, perpetuato attraverso lo stereotipo della “angry black woman”, è un modo per continuare a legittimare il razzismo che le opprime da secoli. Su Insider, l’autrice e imprenditrice Janice Gassam Asare scrive che l’immaginario collettivo vede le donne nere come aggressive, ostili e minacciose; così, a chi condivide gli episodi razzisti di cui è vittima viene puntualmente suggerito che le sue proteste sarebbero accolte meglio, se solo il tono fosse più gentile. Usando ancora le parole di Gassam Asare:

“Le persone ti prenderanno sul serio e saranno disposte a dare valore alla tua esperienza a una sola condizione: che tu la racconti esattamente come vogliono loro.”

Gassam Asare

Chi fa tone policing è lo stolto che guarda il dito quando il saggio indica la luna: prestando attenzione soltanto al modo in cui un messaggio viene espresso, sta rifiutando di ascoltare ed educarsi, scegliendo deliberatamente di mantenere intatta la dinamica di potere che è sempre esistita e rafforzare un sistema che silenzia i gruppi sotto-rappresentati invece di amplificare le loro voci.

Ma cosa possiamo fare per combattere il tone policing? Ci sono alcune azioni e alcuni atteggiamenti che possiamo mettere in pratica per contribuire a creare un ambiente in cui ognuno possa reagire liberamente alle sue esperienze. A venirci in soccorso è Leyla Okhai, autrice del podcast “Diverse Minds”; nell’episodio 102, Okhai sostiene l’importanza di abituarsi a riconoscere e chiamare con il suo nome il tone policing, sia quando ne siamo vittime sia quando lo usiamo contro altre persone. Fondamentale è anche imparare e interiorizzare dei concetti che spesso sottovalutiamo: le emozioni sono valide, anche quando non sono positive, e le persone hanno il diritto di esprimersi come vogliono su qualcosa che per loro conta, senza preoccuparsi di urtare i sentimenti altrui e dettando i termini del loro stesso attivismo.


Articolo di Elisa Pino, immagine di Giorgia Molinari.

In borsa #3: Donne e investimenti sostenibili

Nei due precedenti articoli di questa rubrica abbiamo parlato di come le donne si rapportino al mondo della finanza, sia come investitrici che come imprenditrici alla ricerca di capitali per finanziare le proprie aziende.

In questo appuntamento ho deciso di condividere alcune riflessioni su tre studi recenti che gettano una nuova luce su quanto scritto finora, e cioè che le donne hanno poca confidenza con il mondo degli investimenti finanziari e, quando si trovano a dover scegliere come meglio investire i propri risparmi, tendono a delegare altri.

Il primo è quello condotto da RBC Wealth Management sulla propria clientela negli USA. La ricerca ha rilevato che le donne sono meglio disposte a investire in aziende che integrino nelle loro politiche di gestione e nelle loro decisioni i cosiddetti criteri ESG, ovvero che tengano conto di Environmental (es: uso dell’energia, dell’acqua o riciclo dei rifiuti), Social (come le aziende trattano clienti, stakeholders, lavoratori e lavoratrici) e Governance societari (il valore della leadership di un’azienda e il livello di inclusione dei board).

Inoltre, le clienti considerano un elemento prioritario per le proprie scelte l’impatto ESG delle attività svolte dalle aziende o dai fondi in cui decidono di investire i propri capitali, mentre gli uomini danno maggior rilievo alle performance finanziarie e ai rendimenti.

Perché è tanto importante questo diverso approccio agli investimenti fra uomini e donne?

Perché, se guardiamo a come la nostra società stia modificando il concetto di “sviluppo” (anche a seguito della crisi globale causata dalla pandemia di Covid-19), ci rendiamo conto che pure il mondo della finanza è sempre più sensibile al tema dell’inclusione, della parità e dello sviluppo sostenibile.

Al riguardo, gli investimenti basati su un approccio ESG hanno acquisito sempre più spazio. D’altronde, le soluzioni di investimento sostenibili ottengono in media performance migliori rispetto ai tradizionali investimenti.

In un rapporto altrettanto recente, redatto dal Forum per gli investimenti sostenibili e responsabili, si legge che all’inizio del 2020 in USA circa 17 miliardi di dollari erano investiti in soluzioni ESG, quasi il 42% in più rispetto a due anni prima. Possiamo pertanto affermare che gli investimenti ESG, da investimenti di nicchia, sono diventati una vera e propria stella dell’universo finanziario e le donne sono a ben vedere l’elemento chiave di tale successo perché, quando decidono come investire i propri risparmi, lo fanno in linea con idee di sviluppo in grado di favorire non solo migliori performance finanziarie, ma anche una società più equa e inclusiva.

Eppure, a fronte di queste riflessioni che rendono la donna protagonista del cambiamento, c’è un altro studio, condotto da Wells Fargo su circa 2.195 donne, che mostra le contraddizioni del mondo femminile in relazione al tema “soldi – risparmi – investimenti”.

In base a questo studio, infatti, è emerso che più della metà (54%) di tutte le donne in coppia ha dichiarato di avere guadagni maggiori o uguali a quelli del coniuge, rispetto a solo il 40% delle donne della generazione Boomers.

Tuttavia, nonostante i guadagni e l’autonomia finanziaria, lo studio ha rilevato che il 39% delle donne Millennial e della Generazione X sono intimidite dai concetti finanziari e il 34% non ha imparato abbastanza sulle finanze durante la crescita.

Ma le donne più giovani sono aperte e desiderose di imparare e crescere. Quasi la metà delle donne Millennial e della Generazione X (47%) ha riferito di aver bisogno di consulenza finanziaria ora più che mai e tre quarti di loro credono che sarebbe utile parlare con un* consulente finanziari*, visione condivisa dalle generazioni antecedenti.

E più delle generazioni antecedenti, Millennial e Generazione X sono interessate a parlare con un* consulente non solo dei numeri, ma anche di lavoro (78%), famiglia (71%) e salute (60%) – ciò a riprova di quanto il rapporto fra donne e finanza vada ben oltre la semplice discussione su numeri e soldi, ma possa davvero riguardare la vita di ciascuna e lo sviluppo della società.

Un passo avanti delle donne in tal senso è necessario e questa rubrica ha, tra i vari obiettivi, quello di essere di supporto per gestire al meglio le proprie risorse (finanziarie, ma non solo), esercitando consapevolezza e condividendo idee.


Articolo di Valentina Proietti Muzi, immagine di Marina Ravizza.

L’ultima scelta – San Marino e il referendum sull’aborto.

“Il Presidente crede che sia un diritto della donna, che il corpo sia della donna e che abortire sia una sua scelta (…). So che lei non ha mai dovuto affrontare queste scelte. Lei non è mai stato incinto. Ma per le donne là fuori che devono fare questa scelta è una cosa incredibilmente difficile”.

Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, in risposta a Owen Jensen, giornalista della tv cattolica Ewtn.

Se il tuo corpo si appresta ad affrontare una gravidanza indesiderata, sai bene che la scelta non dipende da te, ma dipende da un se.

Perché se abiti in Italia, puoi fare affidamento sulla legge 194, che ti consente di abortire in sicurezza in una struttura pubblica. Ma se incappi in un ginecologo obiettore di coscienza, e una relazione del Ministero della Salute ci dice che hai il 69% di probabilità, avrai un’oggettiva limitazione e il tuo diritto inizierà ad assomigliare sempre più a un privilegio. Soprattutto se vivi in Molise, dove la percentuale sale fino al 92,3%.

Certo, se sei in Texas ti va peggio: hai tempo solo fino alla sesta settimana per capire la differenza tra un ritardo e una gravidanza (un periodo nel quale è praticamente impossibile riscontrare malformazioni nell’embrione), dopodiché non solo l’interruzione diventa illegale in qualsiasi caso, violenza sessuale o incesto inclusi, ma non potresti più fidarti di nessuno se decidessi comunque di abortire. È stata infatti promessa una ricompensa di 10 mila dollari a chiunque denunci te e le persone coinvolte nella tua scelta (dal personale sanitario a chi ti accompagna o assiste). Dovresti ben guardarti persino dal confidarti con un funzionario religioso, perché il premio vale anche per chi infrange il segreto confessionale.

E se abiti a San Marino?

Dipende tutto da oggi, domenica 26 settembre 2021. In questa data storica lə cittadinə sono chiamatə per la prima volta a rispondere a questa domanda:

“Volete che sia consentito alla donna di interrompere volontariamente la gravidanza entro la 12a settimana di gestazione, e anche successivamente se vi sia il pericolo per la vita della donna o se vi siano anomalie e malformazioni del feto che comportino grave rischio per la salute fisica o psicologica della donna?”

La legge vigente, infatti, dichiara l’aborto illegale senza eccezioni, anche nel caso in cui la persona gestante sia in pericolo di vita o se la gravidanza è conseguenza di uno stupro.

Se una norma risalente al 1865 viene finalmente messa in discussione è merito dell’Unione Donne Sammarinesi (vedo il tuo stupore mentre scopri che no, non è stato un gruppo di uomini ad avanzare questa richiesta).

Il referendum è stata l’estrema ratio; prima abbiamo usato altri strumenti legislativi possibili a San Marino, come le proposte di iniziativa popolare o le Istanze d’Arengo, strumenti di democrazia diretta volti a spingere il Governo a legiferare su determinate questioni. – Mi dice al telefono Maria Elena D’Amelio, membro direttivo UDS – Il problema è che sono tutti sempre stati bloccati dal Governo e fatti cadere nell’oblio, senza darci spiegazioni. Così il referendum era l’unico strumento rimasto, una macchina complessa ma che finalmente lascia la parola alle cittadine e ai cittadini.

Provo a fare una domanda, di cui temo di conoscere già la risposta: quali sono stati i principali impedimenti a una legittimazione dell’interruzione di gravidanza?

Siamo un Paese fortemente influenzato dalla religione cattolica – eccallà – anche se ovviamente non tutte le persone cattoliche sono contrarie al referendum, anzi, c’è una frangia moderata che è nostra supporter. E poi c’è la Democrazia Cristiana, uno dei partiti forti qui, che si è sempre opposta. In questo referendum è stato l’unico partito che si è espresso in maniera contraria, mentre gli altri hanno lasciato libertà di coscienza al proprio corpo elettorale”.

Faccio un’altra domanda di cui temo di conoscere già la riposta: com’è la composizione del Governo?In stragrande maggioranza, uomini”.

Nessuna previsione sul risultato per ora, ma il percepito è di un forte sostegno da parte della popolazione e anche da oltre confine.

Il 28 settembre è la Giornata Internazionale dell’Aborto Sicuro, ma a San Marino potrebbe cadere con 48 ore di anticipo. Per noi non ci sono se, ma solo un bel .

Immagine della scheda del referendum con l'indicazione di votare sì.

PER SAPERNE DI PIÙ

L’Unione delle Donne Sammarinesi è un movimento apartitico formatosi negli anni ’70 per combattere determinate battaglie, come il diritto a non perdere la cittadinanza anche nel caso in cui una donna sposava un cittadino non sammarinese. Una penalità che non toccava agli uomini di San Marino che si sposavano con forestiere (la legge è stata cambiata nel 1984). L’UDS, dopo aver ottenuto un abbassamento della Tampon Tax (in questo l’Italia ancora svetta col suo 22% di IVA sugli assorbenti), si sta occupando ora di vari progetti, che spaziano dal sostegno alle donne afghane a strumenti di aiuto per le madri lavoratrici, fino a campagne contro le molestie sessuali. Puoi seguire il loro operato sul sito o sulle pagine Facebook e Instagram.


Articolo di Flavia Brevi, immagine di Marina Ravizza.

Comunicazione visiva: quanto è inclusiva e accessibile per le persone cieche e ipovedenti?

Viviamo in un ecosistema in cui la comunicazione visiva fa da regina: immagini che accompagnano parole, che vogliono emozionare, coinvolgere, raccontare storie, generare conversioni. Ma quanto è inclusivo e accessibile il nostro modo di comunicare attraverso immagini e stimoli visivi?

Risolvere il problema di una persona per poi estendere la soluzione all’intera collettività (Solve for one, extend to many) è il motto introdotto qualche anno fa dal team di Inclusive Design di Microsoft. 

Si tratta di un concetto che riassume in poche ma precise parole uno dei pilastri della progettazione di esperienze digitali accessibili e inclusive, delle quali fanno parte anche le strategie di comunicazione visiva.

Quando parliamo di comunicazione visiva inclusiva ci riferiamo alle buone pratiche comunicative che permettono di creare prodotti fruibili senza barriere anche da persone con difficoltà visive, siano esse cieche o ipovedenti.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, al mondo esistono almeno 2,2 miliardi di persone con una disabilità visiva. In Italia, secondo dati INPS del 2018, ci sono più di 122 mila persone cieche assolute o parziali, mentre si stima che le persone ipovedenti siano circa 1,5 milioni. Sulla base di stime pubblicate nel 2017, entro il 2030 il numero di persone con una disabilità visiva aumenterà di circa il 25%, anche a causa di patologie legate all’invecchiamento come la degenerazione maculare, il glaucoma e la retinopatia diabetica.

In questo contesto, quanto la comunicazione visiva di cui fruiamo ogni giorno è inclusiva e accessibile per le persone cieche e ipovedenti?

Abbiamo approfondito la questione con Giuseppe Carbone, Content Accessibility Design e Compliance Master presso una grande realtà aziendale italiana, che si occupa di accessibilità non solo per ragioni professionali ma anche personali.

Ciao Giuseppe, puoi raccontarci qualcosa di te?

Vivo in Calabria e sono diventato cieco nel 1992, quando avevo 18 anni. In quel momento mi si è aperto un paradigma di vita diverso, ho dovuto imparare a muovermi in un mondo nuovo.

Considerando le caratteristiche della mia disabilità, ho dovuto imparare ad affidarmi alla percezione aptica, che è la capacità di riconoscere gli oggetti grazie alla combinazione di tatto e propriocezione, cioè la consapevolezza del proprio corpo nello spazio.

Le persone cieche, sia quelle che lo sono dalla nascita sia quelle che lo diventano in seguito, si basano sulla connessione aptica per percepire la realtà in cui vivono.

Il 1992 è un anno speciale che segna i primi passi del digitale anche in Italia. Qual è stato il tuo rapporto con il digitale a partire da quegli anni?

Il mio contatto con il digitale è stato una diretta conseguenza della perdita della vista perché ho dovuto iniziare a leggere e a scrivere con strumenti nuovi. 

A quei tempi ancora non esistevano Windows né le interfacce utenti grafiche. 
Le comunicazioni informatiche passavano solo attraverso la riga di comando, il primo sistema che ho iniziato a usare quando ho perso la vista. 
Per continuare a leggere e a studiare mi sono servito di IBM Writing. All’epoca non esistevano ancora circolari ministeriali che tutelassero l’educazione delle persone con problemi di vista: all’esame di maturità avevo chiesto il permesso di svolgere le prove usando il computer, e dopo qualche reticenza ero riuscito a ottenerlo”.

Quindi sfatiamo lo stereotipo per cui le persone cieche si affidano soprattutto alla lettura con il sistema Braille?

“Sì. Io, per esempio, non ho mai praticato bene il Braille; quando ho iniziato a studiarlo mi sentivo come un bambino di sei anni che deve reimparare a leggere. 

Oggi il Braille si usa meno, vincono le tecnologie assistive, sono molto più comode. 

Però è importante specificare che il digitale è più comodo e inclusivo solo se davvero accessibile.”

Tra poco approfondiremo il tema dell’accessibilità, intanto ci puoi spiegare cosa sono le tecnologie assistive, come funzionano e in che modo aiutano le persone cieche o ipovedenti quando navigano sul web?

“Le tecnologie assistive sono hardware o software o combinazioni di questi che permettono la fruizione di contenuti digitali. Per avere un’idea immediata di tecnologia assistiva, pensa per esempio a Stephen Hawking e ad Acat, la tecnologia di sintesi vocale che gli permetteva di parlare.

Le persone cieche o ipovedenti usano due tipi di tecnologie:

  • lo screen reader, cioè il lettore di schermo;
  • il sistema di ingrandimento o zoom magnifier, che ingrandisce i caratteri, adatta i colori della pagina o regola il contrasto a seconda del sito web o dell’applicazione che si sta usando.

Quando si parla di queste tecnologie, accessibilità e compatibilità sono strettamente collegate. Per poter essere sfruttate al meglio, le tecnologie assistive hanno bisogno di siti web e prodotti digitali pensati e programmati applicando gli standard di accessibilità digitale e informatica.

Se questi standard non si rispettano, le persone con una difficoltà che richiede una configurazione speciale vengono completamente escluse.

Ricordiamo che escludere le persone dalla fruizione di questi prodotti e servizi è una negazione del diritto alla cittadinanza digitale, un concetto che nasce in Europa.

Negli Stati Uniti il concetto di accessibilità viene integrato nei sistemi informatici molto prima che da noi, grazie alla Section 508 che nel 1998 emenda il Rehabilitation Act del 1973. La clausola della Section 508 “richiede alle agenzie federali [del governo/settore pubblico] di rendere la loro tecnologia elettronica e informatica accessibile alle persone con disabilità”.

E invece come viene affrontato il tema dell’accessibilità in Italia?

Oggi lo standard riconosciuto sull’accessibilità è quello del consorzio W3C che si evolve parallelamente all’evoluzione digitale. 

Il W3C nasce con lo scopo di portare il web al suo pieno utilizzo. Le linee guida che contengono tutte le istruzioni per rendere i contenuti web accessibili sono le WCAG (Web Content Accessibility Guidelines).

Grazie anche alla legge europea sui servizi digitali (Digital Act) il tema dell’accessibilità arriva a toccare tutte le interfacce digitali, quindi non solo siti web ma anche applicazioni mobile, bancomat, totem e qualsiasi infrastruttura digitale. 

La Comunità Europea ha emanato queste indicazioni in modo che tutti gli stati europei inizino a implementarle entro il 2023. L’obiettivo è rendere obbligatoria l’applicazione delle linee guida sull’accessibilità per tutti i prodotti digitali a partire dal 2025. 

In Italia, la legge di riferimento per l’accessibilità digitale è la Legge n. 4 del 9 gennaio 2004 che norma i siti della Pubblica Amministrazione. 

Il recente Decreto Semplificazioni di luglio 2020 estende gli obblighi di accessibilità della legge del 2004 anche agli enti privati: questo significa che, entro giugno 2025, anche le aziende private dovranno offrire prodotti e servizi che rispettano i requisiti di accessibilità.

Quali sono le difficoltà più comuni che una persona con una difficoltà visiva trova navigando sui social, su un sito di eCommerce o usando app e altri prodotti digitali? Puoi farci degli esempi?

Il problema più grande è il non rispetto delle regole di accessibilità digitale di cui parlavamo poco fa. Alcuni esempi veloci?

Pensiamo ai social e all’uso di foto senza nessuna descrizione testuale (quello che tecnicamente si chiama alt-text o testo alternativo). Quando pubblichiamo una foto senza una didascalia che la descriva, stiamo silenziando l’immagine per le persone con difficoltà visive. La soluzione qui è semplice: ricordiamo di corredare le nostre foto anche con un alt-text che le descrivano.

La tecnologia dietro le più famose piattaforme social elabora automaticamente un alt-text ogni volta che carichiamo un’immagine nei nostri profili: ma questi testi generati automaticamente sono quasi sempre molto approssimativi e non riescono a spiegare gli aspetti emozionali di un’immagine, i sorrisi, le espressioni del viso.

Sui siti web e soprattutto negli eCommerce, invece, capita spesso di trovare il linguaggio direzionale, cioè i testi che danno istruzioni facendo riferimento a direzioni spaziali, come per esempio “Qui trovi la nostra migliore offerta!”, o “Scopri tutti i dettagli nel box a sinistra!”. 

Il problema del linguaggio direzionale è che non tiene conto del modo e del mezzo in cui le persone leggono quel contenuto: “qui” o “a sinistra” possono perdere senso quando si legge una pagina con un lettore di schermo.”

Parlando invece di comunicazione offline, secondo te sarebbe utile aggiungere le diciture sulle confezioni dei prodotti (ingredienti, info dell’azienda) anche in Braille?

“No, perché la tecnologia è già un supporto brillante che rende superfluo l’uso del Braille. Il Braille non è economico, occupa tanto spazio; basterebbe racchiudere tutte le informazioni relative a un prodotto fisico dentro un codice QR.

Anche la comunicazione visiva offline può essere accessibile alle persone che non vedono, con la tecnologia si possono fare grandi cose.”

La tecnologia degli assistenti vocali sta aiutando a trasformare la vita di persone cieche e ipovedenti in tutto il mondo. Se usi uno di questi strumenti, ci puoi raccontare quali sono le funzionalità che preferisci e in che modo facilitano la tua fruizione dei contenuti sul web?

“Io mi servo spesso di Google Home, faccio un uso molto comune degli assistenti vocali. Oltretutto posso collegarli agli elettrodomestici o ad altri supporti tecnologici e sfruttare la domotica accessibile: posso impostare da remoto l’accensione del forno, delle luci o del riscaldamento di casa.

Non uso invece gli assistenti vocali per navigare sul web, mi servo solo di computer, screen reader e smartphone: l’iPhone e l’iPad sono per me strumenti indispensabili sia nella vita personale che sul lavoro.”

Quali sono, secondo te, gli aspetti fondamentali che un’azienda dovrebbe tenere in considerazione per realizzare una comunicazione digitale visivamente accessibile? Secondo la tua esperienza, quali dettagli vengono ancora tralasciati? 

“Tra le assenze più grandi citerei le audio-descrizioni che servono a descrivere a voce i momenti silenziosi di un prodotto visivo come un film o una serie tv. Grazie a un’audio-descrizione posso capire tutto ciò che succede sullo schermo e recepire anche gli elementi che passano da un canale sensoriale diverso dalla vista.

In questo senso, i programmi Rai fanno già un buon lavoro perché commentano anche le scene mute, ma questo non succede sempre su altri canali televisivi o altri mezzi di comunicazione visiva.

Sarebbe bello se le aziende capissero che ogni messaggio che inviano al pubblico dovrebbe coinvolgere almeno due canali sensoriali. I messaggi che prevedono l’impiego di un unico canale sensoriale generano esclusione.

Per raggiungere questo obiettivo, credo che tutte le aziende dovrebbero abbracciare la filosofia del Design for All, il design inclusivo e olistico. 

Uno dei precursori del Design for All è stato Steve Jobs, il cui mantra era creare prodotti utilizzabili da chiunque. Apple è stata tra le prime aziende globali a incorporare caratteristiche che aiutano le persone ipovedenti o con disabilità a usare l’iPhone, l’iPad e i dispositivi iPod.

Tra i principi del Design for All c’è quello di progettare prodotti e servizi immaginando da subito le caratteristiche di cui una persona con specifiche necessità potrebbe avere bisogno. Significa considerare l’accessibilità uno dei pilastri fondanti del processo di progettazione del prodotto o dell’esperienza digitale.

Steve Jobs e la Apple non sono certo benefattori, ma hanno capito immediatamente che alla base del successo di un prodotto c’è l’accessibilità e quindi la possibilità che venga utilizzato da chiunque.

Alle aziende che si interrogano sul futuro del digitale vorrei dire solo una cosa: chiedetelo a chi non vede.


Articolo di Alice Orrù, immagine di Marina Ravizza.

Si ringrazia Alexa Pantanella per il contatto e Giuseppe Carbone per la sua disponibilità.

Il workwear non è un affare da donne.

Secondo i dati Istat del 2020, il numero complessivo di professioniste in alcuni settori ritenuti storicamente maschili è aumentato. Qualche esempio? L’ambito di costruzione di macchinari speciali ed equipaggiamenti nel 2015 contava 514 mila lavoratrici, nel 2019 la quota sale a 544 mila. Anche un settore come quello dei corrieri segna un incremento delle donne impiegate: dalle 180 mila unità del 2015 alle 194 mila del 2019.

Spostiamo pesi, guidiamo Tir, cambiamo gomme e per farlo abbiamo la necessità di indossare dell’abbigliamento da lavoro idoneo a proteggerci, adatto alle esigenze e che renda agevoli i nostri movimenti. 

Ad esempio, se lavori nella logistica e ti occupi di usare muletti e movimentare pacchi, la tua mansione richiederà che ti pieghi e alzi tante volte al giorno. Inoltre sentirai la necessità di avere a portata di mano un taglierino per sistemare i pacchi, una penna per firmare le bolle e altri attrezzi. Per questo ti servirà un buon pantalone da lavoro, che abbia un elastico in vita per seguire tutti i tuoi movimenti e capienti tasche per riporre gli strumenti e lasciarli lì pronti all’uso.

Se sei una lavoratrice, però, il pantalone che avrai a disposizione probabilmente non sarà progettato sulla tua conformazione fisica. Uomini e donne hanno bacini diversi e questo richiede lo sviluppo di un capo che tenga conto di questa differenza per garantire il comfort e la praticità necessari a poter lavorare al meglio. 

Purtroppo non abbiamo a disposizione i capi giusti, perché l’abbigliamento da lavoro è pensato e studiato sull’anatomia maschile.
Il mondo del workwear è fermo da decadi, cristallizzato in una concezione atavica e maschilistica delle necessità professionali, dove sembra che le donne non siano mai entrate e soprattutto che non debbano mai farlo.

Basti pensare che in Italia i 4 principali brand di produzione di abbigliamento da lavoro hanno solo il 5% della loro offerta costituita da capi specifici per le donne.

Una completa assenza di pantaloni, tute, giubbetti appositamente studiati per i corpi femminili che svolgono lavori manuali ci costringe a scegliere capi non progettati su di noi, che dobbiamo spesso arrangiare, vivendo e lavorando sentendoci a disagio e con poco comfort.

Negli USA, spesso terra di importanti ondate di innovazione e tendenze, timidamente si affacciano alcune start up che progettano abiti da lavoro only for women.

È il caso di Holdette, azienda guidata da Sarah Greisdorf, laureata alla Boston University, che si propone come designer della prima linea di abbigliamento professionale studiata per le esigenze delle donne (con tasche reali!).

Capi funzionali, ma nice looking che potrebbero portare una contaminazione stilistica anche nel panorama workwear italiano, rivisitando il classico pantalone da lavoro maschile.

Quello dell’abbigliamento da lavoro è un mercato che vale 340 milioni di euro in Italia (dati ISTAT 2017) e che segna una crescita lineare dal 2011.

E quello dell’abbigliamento femminile da lavoro è un settore ancora troppo poco studiato, tanto che è difficile reperire studi e ricerche a riguardo.

Un vuoto di dati che ci rende “Invisibili”, per citare il libro di Caroline Criado Perez sulle conseguenze dell’esclusione delle donne dalla vita pubblica e lavorativa.

Dateci il workwear che meritiamo – e gli stessi salari dei nostri colleghi.


Articolo di Francesca Marcandalli, immagine di Marina Ravizza.

Il tuo fondotinta è inclusivo?

Quanti fondotinta hai provato fino ad ora? Io tantissimi. Le aziende cosmetiche sono una evoluzione continua e ci seducono con formule, colori e packaging sempre nuovi. 

Se hai avuto la fortuna di aver trovato la tua base trucco ideale, ho una domanda per te: quante tonalità ha il tuo fondotinta

Un quesito simile se lo deve essere posta qualche anno fa anche Rihanna, e la risposta non troppo positiva l’ha portata a fondare il suo brand di bellezza, Fenty Beauty, con una promessa (che puoi leggere sul sito): creare una gamma di prodotti adatti a tutte le tonalità e tipologie di pelle. Promessa che, racconta la cantante, nasce per rispondere a una sua stessa esigenza: anni e anni in cui ha sperimentato i migliori prodotti di bellezza sul mercato percependo sempre una mancanza nell’offerta di colori e di prodotti specifici per certe tonalità di pelle.

Campagna di lancio di Fenty Beauty

Il lancio avviene con la campagna pubblicitaria “Shades for all”, un elogio della diversità la cui forza è tutta nelle immagini: ci vengono mostrate le tante tonalità dei prodotti, da chiarissime a scurissime, e molto diverse fra loro sono le modelle scelte per raccontare il brand. Diverse per il colore della loro pelle; diverse per cultura, come possiamo notare in particolare dalla ragazza che indossa l’hijab. Con il suo make-up, Rihanna vuole dare a tuttə la possibilità di esprimerci come meglio crediamo. E per farlo dobbiamo partire dalle basi, dal fondotinta appunto: 50 sono le nuance che ci permettono di raccontarci e di giocare con la nostra immagine.

Quella di Fenty Beauty è stata una rivoluzione nell’industria della cosmesi. In seguito al lancio, infatti, moltissimi brand capirono l’importanza di rendere i propri prodotti più inclusivi e decisero di sviluppare nuove tonalità in modo da avvicinare ai propri fondotinta (e non solo) un numero sempre maggiore di persone. A tre anni e mezzo dall’arrivo di Fenty Beauty, a che punto sono i competitor?

Parte della risposta è racchiusa nel numero di tonalità del nostro fondotinta. Sì, quella domanda che ti ponevo all’inizio dell’articolo non era solo per attaccare bottone: le scelte che facciamo, infatti, spingono le aziende a migliorarsi per soddisfare i desideri di un mercato sempre più consapevole ed esigente.

Navigando alcuni dei più importanti e-commerce beauty in Italia, Amazon, Douglas e Sephora, ho provato a chiedere indirettamente loro quante tonalità abbiano i loro fondotinta più apprezzati. Nelle pagine dedicate ai fondotinta ho individuato i 3 best-seller di ciascun sito usando come filtro le recensioni clienti (dato aggiornato al 30 marzo 2021), perché volevo vedere se ci fosse una corrispondenza tra prodotti più amati e l’inclusività della loro offerta. Ecco le cose più interessanti che ho scoperto.

ESTÉE LAUDER DOUBLE WEAR VINCE LA SFIDA DELLE TONALITÀ

I #3 fondotinta bestseller su amazon.it (ordinati per “Media recensioni clienti”) e quelli di douglas.it (ordinati per “Migliore recensione”) hanno un elemento in comune: Double Wear di Estée Lauder.

Prodotto iconico, nasce nel 1997 con una gamma già ampia di tonalità, come spesso accade per i marchi americani. Le pubblicità su carta stampata si focalizzano inizialmente sulle proprietà del prodotto, come copertura e lunga tenuta, mentre negli ultimi anni riscontriamo un maggiore desiderio di comunicare l’ampia gamma di tonalità e l’aggiunta di nuove opzioni.

Campagna “Wear confidence”

Possiamo percepirlo chiaramente nella campagna “Wear confidence”, molto simile nella struttura a “Shades for all”, con modelle di diverse etnie che scelgono di affidarsi a Double Wear (ed effettivamente sul sito italiano di Estée Lauder le tonalità acquistabili sono ben 57). “Wear confidence” è anche il messaggio di autostima che il marchio vuole lanciare attraverso il suo prodotto.

LANCÔME SOSTIENE IL #GIRLPOWER

Nella top #3 di Sephora (filtrata per “Media recensioni”) c’è Teint Idole Ultra Wear di LANCÔME. 50 tonalità e un grande investimento pubblicitario per la campagna “Unstoppable”, che vede protagoniste 5 celebrities, Chiara Ferragni, Penélope Cruz, Lupita Nyong’o, Zendaya e Taylor Hill, scelte per rappresentare la bellezza della diversità.

Campagna Unstoppable

Al grido di “Insieme siamo inarrestabili”, lo spot di  Lancôme sposta l’attenzione sull’importanza di fare squadra: siamo inarrestabili quando ci uniamo nelle nostre battaglie e successi. Se non è inclusione questa.

PER SHISEIDO IL MAKE-UP È UN GIOCO APERTO A TUTTƏ

L’ultimo prodotto di cui voglio parlarti compare al primo posto in classifica su douglas.it: Synchro Skin Radiant Lifting di Shiseido. Nella più recente campagna pubblicitaria assistiamo alla ormai consueta messa in mostra delle tante tonalità mentre meno consueta, anzi direi innovativa, è la scelta della testimonial (Hunter Schafer, modella, attrice e attivista trans) e del modello nel video. 

Campagna NEW Synchro Skin Radiant Lifting

Le tonalità in questo caso sono “solo” 30, ma la scelta del brand è quella di impostare la discussione non sul colore della pelle ma sulle tematiche di genere, aprendo a tuttə le porte del divertente e magico gioco del make-up. Trovo che il binomio uomini e trucco sia il più attuale dei messaggi mostrati: sono diversi i marchi che stanno muovendosi in questa direzione (ma ne parleremo in un altro articolo).

Insomma, il successo di una pubblicità oggi non riguarda solo i risultati di vendita: una campagna è efficace se riesce a scatenare una discussione e a mettere in moto un piccolo o grande cambiamento. E Rihanna e la sua “Shades for all” questo successo secondo me se lo sono meritate, tu che dici?


Articolo di Ilaria De Luca, immagine di Claudia Valentini.

Periodica #4: il costo delle mestruazioni.

Qualche anno fa ho fatto parte di un’organizzazione internazionale che rappresenta un movimento consapevole di persone unite dall’obiettivo di poter superare, entro il 2030, la povertà estrema (che colpisce chi vive con meno di 1,9$ al giorno) e le malattie facilmente prevenibili. Durante questa esperienza ho vissuto esperienze memorabili, come testimonia un mio selfie con Bill Gates, e imparato tantissimo sulle disuguaglianze che prevengono le pari opportunità. In particolare, il report Poverty is sexist – La povertà è sessista, che abbiamo pubblicato, studiato e promosso, dimostra quanto per una donna sia più probabile diventare o restare povera.

L’impatto del genere sulle disuguaglianze economiche, di accesso alla salute, all’educazione, alla nutrizione e alla partecipazione al processo decisionale è particolarmente severo in alcuni Paesi in via di Sviluppo e in altri definiti “fragili” dalla Banca Mondiale, ma non è estraneo al nostro mondo occidentale e ritenuto sviluppato in cui viviamo.

In questo nuovo articolo di Periodica tratteremo infatti una tipologia di disuguaglianza che colpisce in modo specifico e sistematico una parte della popolazione, in funzione di una caratteristica nel funzionamento del corpo: il ciclo mestruale. Parliamo della cosiddetta Period Poverty, la povertà collegata alle mestruazioni, che si concretizza non solo in una difficoltà di acquisto di dispositivi di igiene mestruale (assorbenti, tamponi, coppette, etc), ma anche nella difficoltà o impossibilità di accedere a luoghi sicuri e adatti in cui potersi occupare della propria igiene e a informazioni appropriate sul ciclo mestruale e il suo funzionamento (più in generale, a un’adeguata educazione sessuale).

Le sfide causate dalla Period Poverty si manifestano con gradi e livelli differenti a seconda della zona e cultura in cui ci si trova. Generalmente, nei Paesi ad alto reddito le difficoltà sono economiche in relazione all’acquisto di prodotti per il ciclo mestruale, mentre nei Paesi a medio o basso reddito le problematiche sono legate alla più ampia gestione dell’igiene mestruale. A prescindere dal contesto il risultato però non cambia: chiunque abbia le mestruazioni rischia di trovarsi a vivere situazioni discriminanti e penalizzanti.

PERIOD POVERTY IN PAESI A MEDIO/BASSO REDDITO

Nei Paesi in via di sviluppo, circa 2,4 miliardi di persone vivono senza accesso ai servizi sanitari di base, e solo il 27% della popolazione mondiale dispone di strutture per lavarsi le mani. Queste condizioni igieniche aumentano la vulnerabilità a crisi sanitarie – come quella legata al virus Cov-19 – che a loro volta, per la natura urgente della loro comparsa, rallentano i regolari interventi di sanità pubblica dedicati allo sviluppo di un’adeguata assistenza sanitaria, a un’educazione regolare e generica verso le buone pratiche igieniche. Come è purtroppo facile immaginare, a farne le spese sono soprattutto le misure dedicate alla gestione dell’igiene mestruale.

Come abbiamo visto nel primo articolo di Periodica, le mestruazioni sono un tabù; non parlarne ha impatti sull’inclusione delle esigenze di chi le ha all’interno dell’agenda pubblica. Questo silenzio è rinforzato dalla natura patriarcale dei sistemi in cui viviamo, con conseguenti implicazioni sulla concretizzazione dei diritti umani di donne e ragazze, in particolare il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro.

È così che, secondo The Hygiene and Health Report 2020-21, circa il 42% della popolazione mondiale non ha frequentato la scuola o il lavoro per tematiche igieniche legate alle mestruazioni. Il primato negativo spetta all’India, in cui tale percentuale sale al 77%, ma riporta per l’Italia un preoccupante 40%. In 3 casi su 10 la motivazione ha a che fare con la mancanza di accesso a strutture igieniche pulite e/o sicure.

Considerando invece la capacità di spesa per l’acquisto di prodotti per l’igiene mestruale, circa 500 milioni di persone sperimentano la Period Poverty ogni mese, dovendo scegliere tra assorbenti/tamponi etc e beni di esigenza primaria, tra i quali il cibo. Per citare un esempio, in Kenya questa condizione affligge il 65% di chi ha le mestruazioni. Allargando lo sguardo, circa 1 persona su 10 nel mondo si è trovata nelle condizioni di non potersi permettere prodotti per l’igiene mestruale.

Quando, per ragioni economiche, igieniche o sociali, non si utilizzano adeguati prodotti per l’igiene mestruale, si ricorre a soluzioni di fortuna perlopiù inefficienti, ma soprattutto pericolose per la salute. Prodotti come stracci, tovaglioli di carta e assorbenti riutilizzati generano rischi di infezioni urogenitali, anche gravi. È inoltre dimostrato che l’impatto di questa dimensione della Period Poverty sia correlata a elevati livelli di ansia, depressione e angoscia.

Risulta quindi evidente che la Period Poverty vada ben oltre una semplice questione economica, e che sia un argomento complesso e strettamente legato alla cultura e allo stigma legato alle mestruazioni. Sarebbe pertanto ingenuo pensare che sia sufficiente distribuire prodotti gratuiti alle fasce più vulnerabili della popolazione per risolvere il problema.

Ne è dimostrazione un esperimento condotto in Uganda in cui, per incentivare la frequenza scolastica, sono stati distribuiti gratuitamente assorbenti lavabili e usa e getta alle studentesse. Nonostante le ottime premesse, il tasso di frequenza scolastica non è aumentato. In alcuni casi le studentesse non avevano idea di come utilizzare i prodotti ricevuti e avevano troppa vergogna delle proprie mestruazioni per chiedere suggerimenti. Nel caso di assorbenti lavabili, l’imbarazzo di stenderli ad asciugare portava le studentesse a non lavarli, con conseguenti fastidi che rendevano insopportabili le giornate sedute sui banchi. In altri casi ancora i compagni di scuola, intravedendo sotto gli abiti delle compagne gli assorbenti, le prendevano in giro, spingendole ancora una volta a rinunciare ad andare a scuola. A partire da questa evidenza è stato sviluppato un nuovo progetto in cui rappresentantə delle comunità locali, in collaborazione con un gruppo di ricercatorə e professionistə, hanno accolto la sfida di provare a superare quei tabù che impediscono di gestire le mestruazioni con dignità tramite proposte concrete e sostenibili. Il progetto ha avuto successo grazie al cambio di paradigma: non solo predisporre l’accesso a una gamma di prodotti mestruali a prezzi accessibili realizzati a livello locale ma educare uomini, donne, ragazzi e ragazze sulle mestruazioni. 

Per superare la Period Poverty nei Paesi a medio o basso reddito, è dunque fondamentale:

  • Lavorare su una cultura che rifiuti i tabù e i preconcetti legati alle mestruazioni;
  • Promuovere educazione e consapevolezza del funzionamento del corpo durante le mestruazioni e dei prodotti che permettano di gestirle al meglio;
  • Sviluppare spazi e soluzioni dedicate all’igiene mestruale adeguate in linea con il protocollo WASH (Water, Sanitation and Hygiene) nelle scuole e nei luoghi pubblici;
  • Rendere accessibili i prodotti per la gestione dell’igiene mestruale.

Solo così sarà possibile rendere le mestruazioni un diritto umano fondamentale e non un elemento di discriminazione, così come previsto dalla Women’s Convention, secondo cui

“Le pratiche relative alle mestruazioni possono costituire una discriminazione se influenzano le libertà fondamentali nel campo politico, economico, sociale, culturale e civile o qualsiasi altro campo.”

PERIOD POVERTY NEI PAESI AD ALTO REDDITO.

L’impatto delle Period Poverty nei Paesi a più alto reddito è connesso alla dimensione economica che impedisce ad alcune fasce della popolazione di acquistare prodotti per l’igiene mestruale o di poter scegliere alternative migliori rispetto a quelle di fascia di prezzo e qualità inferiori.

In Italia, ad esempio, la spesa annuale per assorbenti o tamponi è di circa 90€ per ogni membro del nucleo familiare che abbia le mestruazioni; considerando in media 40 anni di mestruazioni, l’impatto economico raggiunge 3600€ nel corso della vita, senza considerare il costo per tutti gli altri prodotti che orbitano attorno al ciclo mestruale femminile come antidolorifici, prodotti cosmetici e contraccettivi ormonali.

È fondamentale analizzare le caratteristiche di questa spesa: si tratta di una spesa necessaria e non accessoria e che ricade principalmente sulle donne, che, come sappiamo, hanno un potere d’acquisto inferiore, determinato da livelli occupazionali inferiori rispetto agli uomini e da un gender pay gap ancora troppo rilevante. La crisi causata dalla pandemia inoltre ha evidenziato il fenomeno della “SheCession”, una recessione che ha colpito con maggior forza le donne. Secondo l’Istat oggi sono 2 milioni e 472 mila le donne in Italia che vivono in condizione di povertà assoluta e che faticano a permettersi l’acquisto di prodotti per la gestione dell’igiene mestruale.

In questo contesto risulta chiaro che il costo delle mestruazioni diventi estremamente discriminante e debba essere incluso nella conversazione politica. 

Un altro tema fortemente discusso è quello della Tampon Tax, riferito all’esistenza di tassazioni specifiche sui prodotti per l’igiene mestruale che li equiparano a prodotti considerati non necessari. 

Nel 2006, l’Unione Europea ha previsto che i prodotti “di protezione dell’igiene femminile” possano essere assoggettati ad aliquote ridotte. Alcuni Paesi hanno dato seguito a questa indicazione riducendo l’IVA su assorbenti e tamponi: al 7% in Germania, al 5,5% in Francia, al 3% in Lussemburgo. Altri Paesi hanno deciso di cancellare completamente la Tampon Tax, tra questi il Regno Unito, in risposta a una situazione di Period Poverty molto accentuata che vede, secondo una ricerca di Plan International UK, il 42% delle intervistate utilizzare soluzioni come calzini o carta di giornale per far fronte al proprio flusso mestruale. A livello globale anche Canada, Kenya, India e Australia hanno abolito la Tampon Tax.

La situazione è ancora molto arretrata in Italia. Benché l’IVA riservata ai beni di prima necessità sia del 4%, i prodotti per l’igiene mestruale non sono considerati tali, e sono di conseguenza sottoposti ad aliquota ordinaria del 22%. A dicembre 2019, l’IVA per assorbenti/tamponi biodegradabili e compostabili è stata ridotta al 5%, misura non ancora soddisfacente poiché questa tipologia di prodotto è ancora troppo costosa e difficile da reperire.

Secondo una ricerca italiana (AstroRicerche, 2019), il 45,5% delle donne conosce l’esistenza di questa tassa, rispetto al 31,5% degli uomini, e nel 63,0%  ritiene inaccettabile che gli assorbenti siano tassati come un bene di lusso dal momento che rappresentano un bene di prima necessità.

Il The Hygiene and Health Report 2020-21 riporta che il 47% dei rispondenti  considera che fornire in modo gratuito prodotti per l’assorbenza a persone che vivono condizioni di povertà sia una misura concreta per migliorare la salute mestruale; il 43% ritiene che la Tampon Tax debba essere rimossa.  

Non soltanto la dinamica di prezzo e tassazione, ma anche la questione dell’accesso a prodotti per la gestione mestruale in ambienti pubblici è estremamente contingente. Secondo la ricerca realizzata dalla no profit statunitense Free the Tampons, l’86% delle donne americane si è trovata a dover gestire l’arrivo inatteso delle mestruazioni in luoghi pubblici senza disporre dei prodotti necessari. Nel 79% dei casi, la soluzione è stata quella di improvvisare un assorbente con carta igienica o simili, causando disagio (57%), ansia (43%) e addirittura panico (35%). Per favorire il benessere fisico ed emotivo di chi ha le mestruazioni è importante prevedere la presenza di distributori di assorbenti e tamponi nei luoghi pubblici, possibilmente a prezzi calmierati o gratuiti, così da non escludere nessuna persona che ne abbia necessità.

In quest’ottica, è esemplare la scelta della Scozia che, con il “Period Products Bill” del 2020, ha approvato la prima legge dedicata al contrasto della Period Poverty tramite la distribuzione gratuita di prodotti dedicati all’assorbenza mestruale nelle scuole e nelle università, unita a misure di informazione e sensibilizzazione mirate a eradicare lo stigma legato alle mestruazioni. Anche la Nuova Zelanda, guidata dalla prima ministra Jacinda Ardern, ha previsto di fornire prodotti per l’igiene mestruale in modo gratuito; speriamo che molti altri Paesi seguano questi esempi.

È inoltre fondamentale assicurare che l’accesso universale a questi prodotti e a luoghi sicuri per poter gestire le proprie mestruazioni. Non tutte le donne hanno le mestruazioni, non tutte le persone che hanno le mestruazioni sono donne e purtroppo la Period Poverty tende a colpire maggiormente chi fa parte di gruppi marginalizzati. Lo stigma associato alle mestruazioni coinvolge anche persone non binarie e transgender. L’esperienza non è inclusiva in tutti quei casi in cui vengono proposti unicamente prodotti per l’assorbenza basati sull’inserimento, quando i bagni sono differenziati in base al genere e quando non hanno contenitori per lo smaltimento dei prodotti mestruali, e anche in quei casi in cui, pur essendo disponibili gratuitamente, vadano richiesti a una persona terza, come ad esempio un insegnante.

CONCLUSIONI

Superare la Period Poverty fa parte di una più ampia occasione per raggiungere la parità di genere, perché con mestruazioni che non siano più limitanti si garantisce accesso e partecipazione a un numero sempre maggiore di persone alle attività sociali ed economiche. Il beneficio che ne deriva, inoltre, non avvantaggia solo chi ha le mestruazioni, bensì, grazie alla loro acquisita capacità di reinvestire i guadagni nelle loro famiglie e comunità, si favorisce un aumento di valore per tutta la società, costruendo capitale umano che alimenterà la futura crescita economica.

L’accesso ai prodotti per l’igiene mestruale è un diritto, e sentirsi pulitə, sicurə e nelle condizioni di poter portare avanti la propria quotidianità durante le mestruazioni è una necessità.

Ci sono moltissimi modi in cui possiamo contribuire al raggiungimento di una società che consideri le mestruazioni come un elemento naturale e non discriminante:

  • Innanzitutto, informarci e parlarne. Lo diciamo sempre su Periodica, ma questo è davvero il primo e più efficace strumento per scardinare lo stigma. Facciamolo in persona, sui social media, con le persone più e meno giovani, e non dimentichiamoci di parlarne anche con gli uomini, il raggiungimento di un’equità mestruale è anche affar loro.
  • Contattare i nostri rappresentati locali e nazionali e chiedere che le tematiche legate alle mestruazioni vengano incluse nella conversazione politica. La nostra voce può contribuire a raggiungere una riduzione della Tampon Tax e/o distribuzione gratuita di prodotti dedicati alle mestruazioni, così come un’adeguata educazione nelle scuole.
  • Richiedere alle persone responsabili delle nostre scuole, università, uffici di considerare la possibilità di prevedere dei distributori di assorbenti/tamponi nei bagni di e per tuttə coloro che possano averne necessità, e di assicurarsi che le condizioni igieniche e di sicurezza siano sufficienti.
  • Sostenere chi vive mestruazioni più complesse delle nostre.

Queste sono alcune idee, ma cogliamo l’occasione di creare una comunità consapevole che contribuisca a un nuovo ciclo di cambiamento positivo in cui le mestruazioni e i prodotti a esse legate possano essere accessibili, sicuri e senza stigma.


Articolo di Martina Palmese, immagine di Alessandra D’Amico.

Donne scomode e come zittirle sui social media.

“Noi parliamo il mondo e intanto il mondo ci parla,

noi ci rappresentiamo noi stessi e intanto quello che noi siamo,

senza saperlo, si rappresenta nel nostro parlare.”

Luisa Muraro

In un breve dialogo con l’attivista Irene Facheris, il filosofo femminista Lorenzo Gasparrini, ospite del podcast Palinsesto femminista, riassume efficacemente l’essenza della “mascolinità tossica”:

“Il patriarcato ti dà i motivi per essere arrabbiato e l’obiettivo da colpire con la tua arrabbiatura (…), ti dà l’arma e l’obiettivo. Bisogna imparare a capire che tutti e due vengono dalla stessa parte”.

Lorenzo Gasparrini

Nel corso del tempo abbiamo imparato a tollerare questa “tossicità”, a conviverci, a sfogare odio e frustrazione sui social media, trasformando un prezioso strumento di connessione umana in un campo di battaglia. Questo breve scritto parte da queste considerazioni, ma anche dalla consapevolezza che grazie allo studio, all’empatia e alla forza di alcune voci che resistono, l’attenzione nei confronti delle tematiche da sempre care al femminismo intersezionale sta crescendo. Non è un caso, infatti, che le scrittrici, le filosofe, le attiviste siano fra i bersagli prediletti dell’odio online: attaccare sembra l’unico modo per delegittimare non solo le posizioni ma anche la professionalità, la competenza, la dignità di queste donne. Per questo ho scelto di trattare di una delle tipologie di testo più rappresentative del modo in cui queste tattiche di delegittimazione vengono attuate, diffuse, interiorizzate: gli scambi di commenti sotto ai post sui social media. La speranza è che diventi man mano più semplice riconoscere queste strategie, prenderne le distanze e, infine, condannarle. 

I social network sono, com’è insito nella definizione, reti di relazioni sociali.  A differenza dei media tradizionali, sono caratterizzati dal fatto che fra l’utente e il media si stabilisce una vera e propria interazione. In tal senso, possiamo definire ogni singolo social media come una semiosfera, ossia una rete di codici comunicativi: il ciclo dei contenuti, dalla loro produzione alla fruizione, insieme al sistema linguistico adottato e alle regole (interiorizzate dall’utente o imposte dalla piattaforma) che regolano gli scambi comunicativi, ci permettono di dedurre le caratteristiche di una determinata cultura. La scrittura assume una funzione di completamento (specialmente in piattaforme come Instagram), eppure mantiene il potere di chiarire il messaggio, di guidare verso una corretta decodifica. Con gli strumenti che il linguaggio ci offre siamo in grado di fare pressoché qualsiasi cosa: imporre un’azione, raccontare una storia, proporre un indovinello, creare mondi possibili. Certo, questo “peso” non ricade esclusivamente su chi emette il messaggio, anzi. Il destinatario può assumere atteggiamenti diversi: la modalità di lettura che mi pare adattarsi all’oggetto della nostra indagine è quella “resistente”, che mira esclusivamente alla decostruzione del testo. Nel momento in cui pubblichiamo qualcosa su un social media, quel post chiede di essere commentato e, dunque, interpretato: chiede, insomma, che l’utente compartecipi alla costruzione di senso. 

Le rappresentazioni di genere veicolate da dispositivi di potere, quali i media tradizionali e i social media, hanno una rilevanza crescente nella produzione (e nella fruizione) dei modelli di genere, a tal punto che sembra non avere più senso una distinzione netta fra media e società. 

Luce Irigaray parla di «soggettività denegata alla donna […]: oggetto di rappresentazione, di discorso, di desiderio», tendenza ancor più evidente sui social media, dove la rappresentazione del genere femminile può apparire contraddittoria. I meccanismi dello sguardo e le pratiche di osservazione caratteristiche del male gaze coinvolgono il soggetto femminile nella sua dimensione corporale attraverso un processo di ipersessualizzazione, ma non soltanto. Per estensione, lo sguardo maschile si impone sulle soggettività femminili a tutto tondo, divenendo quasi un filtro attraverso cui esperire la realtà e produrre senso. Come si manifesta nella vita quotidiana? Nel machismo, nella mascolinità tossica, nel revenge porn, nella maggior parte della pornografia; ma anche nei proverbi, nel mansplaining, nella resistenza all’utilizzo dei femminili professionali e nel cosiddetto sessismo benevolo (“le donne non si toccano nemmeno con un fiore”, “gli uomini devono essere forti e proteggere la loro donna”). E così via. 

Vorrei proporre, adesso, alcuni esempi di commenti che, in fase di raccolta, fra Facebook, Instagram e YouTube, ho trovato più rappresentativi delle tendenze comunicative che abbiamo già intravisto, un vero e proprio micro-repertorio di violenze verbali, che puntano esclusivamente alla distruzione e alla delegittimazione del ruolo, dell’autorevolezza, della competenza delle singole personalità prese di mira e, per estensione, di tutto il genere femminile. La tematica costante è quella del sesso, nelle sue molteplici manifestazioni: l’oggettificazione del corpo femminile, lo slut shaming, il giudizio sulle abitudini sessuali (sulla loro mancanza o sulla loro “eccedenza”). Di seguito, due commenti dall’account Instagram di Carlotta Vagnoli, sex columnist e attivista femminista:

“Ma questa continua esibizione del corpo? La linea tra esibire e mostrare è molto sottile … una donna può nostrarsi anche vestita … un uomo non ha bisogno di foto nude/mezze nude per affermarsi … questa è la parità”

“Sempre più nuda e tatuata… Alla faccia della sbandierata dignità delle….”donne”. Sai fare anche altro nella vita? 😉 Chiedo per un amico… Ahahah…Per la felicità di tutti i mdd del web dalla mano amica. Ahahaha…”

A tal proposito, mi sembra utile ricordare la nozione di «scopofilia», usata negli anni Settanta da Laura Mulvey per indicare come il piacere dello sguardo, in una società patriarcale, appartenga esclusivamente alla dimensione maschile. Per comprendere pienamente il suo funzionamento, bisogna tenere conto della duplice direzione che segue la tattica di delegittimazione basata sulla sessualizzazione del corpo: mostrare il proprio corpo sui social (se il corpo è considerato appetibile in senso standard) equivale ad avere abitudini sessuali libertine e a voler attirare l’attenzione, mentre mostrare un corpo al di fuori dei canoni prestabiliti equivale ugualmente a voler attirare l’attenzione, ma su un corpo che non la merita, se non per essere deriso. Alla delegittimazione per abitudini sessuali (“sei una tr**a”) e a quella per mancanza di abitudini sessuali (“una bella sc****a ti farebbe bene”), si affiancano quindi quella per aspetto fisico (“sei troppo magra”, “sei troppo grassa”, “sei troppo attraente”, “sei troppo poco attraente”) e per età (“sei troppo vecchia”). 

L’attacco alla professionalità è un altro leitmotiv dei commenti sui social media, una delle molteplici manifestazioni della radicata convinzione secondo la quale informarsi su Internet, magari leggendo a nostra volta dei commenti o limitandoci al titolo di un articolo, sia bastevole a renderci persone esperte in qualsiasi settore. Uno di questi è la linguistica, che negli ultimi anni, fra l’avvento di petaloso e la polemica sui femminili professionali, si è ritrovata improvvisamente alla ribalta. E così, sembrano essersi moltiplicati i linguisti. 

Ecco alcuni commenti al video, pubblicato su YouTube, del TEDx Il potere delle parole giuste, tenuto da Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer e in linguaggio inclusivo. 

“Sì, ma non incazzarti”

“ottima lezione ma lei non mi piace per niente, non riesce a creare empatia : ha un modo di esprimersi incazzoso, sembra aggressiva. Dovrebbe studiare un po’ IL LINGUAGGIO DEL CORPO, non solo le parole…..”

“perdonami, credo che dovresti bere un bicchiere di vino prima di fare un video. ti aiuta a liberarti e dare un senso. sembra che leggi senza spirito.”

“guarda, a me stai sui maroni e possiamo andare avanti all’infinito credimi, fallita repressa e frigida”

 Anche in questo caso, non ci stupiamo della ricorrenza di elementi dichiaratamente sessisti, accompagnati dalla critica alla presunta incapacità di comunicare adeguatamente i concetti. È interessante notare come la mancanza di professionalità, in parecchi casi, sia in un certo senso attribuita al nervosismo di cui viene tacciata Gheno. Del resto, un’altra delle tattiche di demolizione più gettonate è quella basata sull’accusa di isteria (“sei pazza”, “datti una calmata”). Questi commenti evidenziano un altro tratto ricorrente delle interazioni conversazionali sui social media: nonostante Gheno sia una professionista e, dunque, lo scambio si svolga fra interlocutori che non si pongono sullo stesso piano gerarchico, la cornice del social media non solo permette, ma agevola il fatto che ogni utente possa mantenere un ampio margine di autonomia nell’interazione, anche se non possiede (che ne sia cosciente o meno) gli strumenti per intrattenere una conversazione paritaria sull’ argomento. 

            In questo breve scritto ho cercato di offrire una panoramica degli atteggiamenti comunicativi che, nella mia esperienza di utente dei social media e di lavoratrice del settore, ho imparato a riconoscere come pervasivi e trasversali. Si tratta di uno strumento che, se maneggiato con cautela, può offrire uno spazio di libertà unico in cui conoscere e conoscersi. È per questo che una critica cieca nei confronti del loro funzionamento non solo non avrebbe fondamento, ma distoglierebbe dalla conoscenza profonda di una parte fondamentale e caratterizzante del nostro essere umani oggi. Nella speranza che si impari a prestare attenzione, perché l’odio non trovi ulteriore spazio. 


Articolo scritto da Chiara Paterna, immagine di Marina Ravizza.