
Nel settembre del 2020, Rosena Allin-Khan, parlamentare inglese e dottoressa specializzata in rianimazione, in prima linea nelle corsie ospedaliere durante la pandemia, ha preso la parola alla Camera dei Comuni di Londra, rivolgendosi direttamente al Segretario della Salute Matt Hancock. Quando Allin-Khan ha accusato il governo di aver affrontato l’emergenza da Covid-19 in modo inadeguato, con il risultato di migliaia di perdite di vite umane, Hancock non ha saputo come reagire se non invitandola ad abbassare i toni.
L’episodio (che è stato ripreso ed è possibile guardare sul sito dell’Indipendent) non è altro che il perfetto e famoso esempio di un fenomeno che tutte le categorie marginalizzate vivono sulla loro pelle quotidianamente: il tone policing.
“Calmati, così possiamo avere una conversazione da persone adulte.”
“Non pensi di essere eccessiva?”
“Certo, capisco il tuo parere, ma forse faresti meglio a parlarne civilmente.”
Quante volte ci siamo sentite ripetere una di queste frasi – sul lavoro, in famiglia, perfino da utenti senza volto sul web – quando abbiamo condiviso il nostro punto di vista senza nascondere o censurare le nostre emozioni? È semplice individuare il denominatore comune: non si mette quasi mai in discussione quello che diciamo, bensì il modo in cui lo facciamo.
Il tone policing (conosciuto anche come tone trolling, tone argument e tone fallacy) è una forma di micro-aggressione verbale che avviene quando una persona in una posizione di privilegio si sente in diritto e addirittura in dovere di silenziare l’interlocutorə, se proveniente da un background svantaggiato. In questi casi, quello che viene criticato e attaccato non è il messaggio stesso – che passa totalmente in secondo piano – bensì il modo con cui questo viene comunicato, specie quando sono coinvolte rabbia, tristezza, frustrazione, paura e altre emozioni percepite negativamente che, tuttavia, dipendono proprio dalla questione che si sta affrontando.
L’espressione tone policing ha cominciato a essere usata nel 2015 nei centri culturali statunitensi, per poi diffondersi grazie a un fumetto pubblicato su Everyday Feminism con il titolo “No, we won’t calm down – Tone policing is just another way to protect privilege”. Tuttavia, noi donne siamo vittime di questa pratica da ben prima che avesse un nome: da sempre ci sentiamo dire che stiamo esagerando, che siamo pazze, che dovremmo farci una risata e soprattutto smetterla di prendercela così tanto. Affermando questo, si sta implicando che l’unica discussione degna di essere portata avanti sia quella che si svolge con calma, come se emotività e raziocinio non potessero coesistere ma si escludessero a vicenda. Non è così: non siamo robot, ed emozionarci quando parliamo di qualcosa che ci sta a cuore e che ha un impatto sulle nostre vite non ci rende meno degne di essere ascoltate. Inoltre, è sbagliato considerare le conversazioni come dibattiti in cui le due parti espongono punti di vista opposti in modo neutrale, con l’obiettivo di arrivare a un accordo comune: ci sono argomenti che richiedono una presa di posizione, e ce ne sono altri che si possono esplorare senza dover per forza giungere a una soluzione.
Il tone policing non è cosa tristemente nota solo alle donne, ma a chiunque faccia parte di una minoranza, come le persone con disabilità, quelle della comunità LGBTQIA+ e soprattutto BIPOC. Storicamente a essere più colpite da questo fenomeno sono proprio le donne nere: il tone policing nei loro confronti, perpetuato attraverso lo stereotipo della “angry black woman”, è un modo per continuare a legittimare il razzismo che le opprime da secoli. Su Insider, l’autrice e imprenditrice Janice Gassam Asare scrive che l’immaginario collettivo vede le donne nere come aggressive, ostili e minacciose; così, a chi condivide gli episodi razzisti di cui è vittima viene puntualmente suggerito che le sue proteste sarebbero accolte meglio, se solo il tono fosse più gentile. Usando ancora le parole di Gassam Asare:
“Le persone ti prenderanno sul serio e saranno disposte a dare valore alla tua esperienza a una sola condizione: che tu la racconti esattamente come vogliono loro.”
Gassam Asare
Chi fa tone policing è lo stolto che guarda il dito quando il saggio indica la luna: prestando attenzione soltanto al modo in cui un messaggio viene espresso, sta rifiutando di ascoltare ed educarsi, scegliendo deliberatamente di mantenere intatta la dinamica di potere che è sempre esistita e rafforzare un sistema che silenzia i gruppi sotto-rappresentati invece di amplificare le loro voci.
Ma cosa possiamo fare per combattere il tone policing? Ci sono alcune azioni e alcuni atteggiamenti che possiamo mettere in pratica per contribuire a creare un ambiente in cui ognuno possa reagire liberamente alle sue esperienze. A venirci in soccorso è Leyla Okhai, autrice del podcast “Diverse Minds”; nell’episodio 102, Okhai sostiene l’importanza di abituarsi a riconoscere e chiamare con il suo nome il tone policing, sia quando ne siamo vittime sia quando lo usiamo contro altre persone. Fondamentale è anche imparare e interiorizzare dei concetti che spesso sottovalutiamo: le emozioni sono valide, anche quando non sono positive, e le persone hanno il diritto di esprimersi come vogliono su qualcosa che per loro conta, senza preoccuparsi di urtare i sentimenti altrui e dettando i termini del loro stesso attivismo.
Articolo di Elisa Pino, immagine di Giorgia Molinari.