Tra i suoi innumerevoli benefici, imparare una lingua straniera può anche aiutarci a fare un passo in più verso l’inclusività. A partire dal linguaggio, naturalmente, ma non solo. Come?
In teoria
Sembrerà banale affermarlo ma imparare una nuova lingua apre la mente e allarga gli orizzonti. Ci regala un accesso privilegiato alla mentalità, al modo di pensare, alla visione del mondo e alla cultura di un altro gruppo di persone. Ci dà modo di confrontarci e interagire in modo diretto (cioè non mediato dalla traduzione) con i mezzi espressivi di quei parlanti, dalla letteratura al cinema. Ci insegna a riconoscere e rispettare la diversità e lasciarci arricchire dalle differenze.
Ma c’è di più. Secondo il principio della relatività linguistica, la lingua ha il potere di influenzare la visione del mondo o, quanto meno (citando da qui), di “dirigere l’attenzione dei parlanti su certi aspetti dell’esperienza anziché su altri”.
Senza tecnicismi né estremismi, possiamo dire che se non abbiamo una parola per definire qualcosa, ci è più difficile percepirla e inquadrala con contorni netti, e viceversa: se un popolo non è mai entrato in contatto con un dato concetto, non ha mai avuto la necessità di trovare una parola per indicarlo. È in questo senso, ad esempio, che è importante insistere sull’uso dei femminili per indicare le professioni: parlare di sindaca e avvocata aiuta ad abituarsi all’idea che questi ruoli possano essere ricoperti anche da donne.
Imparare un’altra lingua ci permette di pensare anche nei suoi termini, tramite le sue strutture e le sue parole, persino quelle intraducibili e inesistenti del nostro idioma.
In pratica
Quando studiamo una nuova lingua, entriamo in effetti in contatto con le sue specifiche strutture grammaticali, sintattiche e lessicali.
Un esempio molto immediato sono i generi grammaticali. Se impariamo il tedesco o il russo, dobbiamo allenare la mente a pensare attraverso tre generi diversi (maschile, femminile, neutro). Approfondendo l’inglese, (ri)scopriamo che i sostantivi non si differenziano in base al genere e che si sta diffondendo l’uso del singular they per non dover specificare il genere di una persona (evitando quindi di scegliere tra he o she). Accostandoci al finlandese, apprendiamo che è una lingua senza generi, con la possibilità di aggiungere prefissi o suffissi quando è necessario precisare il sesso di una persona o un animale.
Tutto questo ci costringe a riflettere sulla nostra lingua e sui meccanismi che attiviamo quando comunichiamo. E ci ricorda che i termini in cui pensiamo noi non sono necessariamente universali. Ci regala, in definitiva, una maggiore competenza e consapevolezza in materia linguistica e comunicativa. E aggiunge qualche prezioso elemento alla nostra “cassetta degli attrezzi” da cui attingere per esprimerci con sempre maggiore precisione, attenzione e inclusività in qualunque contesto e in qualunque lingua.
In definitiva, diamo il via a delle importanti pratiche di modellazione, arricchimento, riflessione e ripensamento della parola come mezzo. Perché al di là di espedienti più o meno meritevoli di attenzione come schwa e asterischi, io credo che la vera capacità inclusiva di una lingua (e perciò di chi la parla) risieda nella sua plasticità e capacità di adattarsi al bisogno.
E di allargare, un poco alla volta, anche lei come noi, i propri orizzonti.
Articolo di Chiara Foppa Pedretti, immagine di Marina Ravizza.
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