Alan Turing. Bill Gates. Steve Jobs. La storia del computer sembra opera dell’uomo, ma non è proprio così.
Chimamanda Ngozi Adichie in The danger of a single story dice:
“Raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia.”
E allora oggi voglio raccontarvi l’altra storia sugli albori dell’informatica, quella che non troverete – ahimè – sui libri di scuola e di cui le vere protagoniste sono state le donne.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, sei giovani matematiche – Jean Jennings Bartik, Frances Elizabeth Snyder, Kathleen McNulty, Marlyn Wescoff, Ruth Lichterman e Frances Bilas – furono chiamate a lavorare alla creazione del primo calcolatore elettronico per un progetto segreto del Ministero della Difesa degli Stati Uniti: l’ENIAC. Le sei brillanti menti progettarono tutto il software e misero un primo mattoncino sulle fondamenta della moderna programmazione, eppure il loro prezioso contributo fu dimenticato e nelle foto furono indicate come Refrigerator Ladies, modelle usate per pubblicizzare il computer, come si usava fare per gli elettrodomestici.
Nel frattempo, gli ingegneri che avevano lavorato all’hardware del calcolatore si prendevano tutti i meriti.
Se conosciamo “l’altra storia”, dobbiamo ringraziare Kathy Kleiman, programmatrice e studentessa di Harvard, che negli anni Ottanta portò alla luce il lavoro delle matematiche.
Dopo la guerra, la programmazione passò dall’esercito al settore privato, ma le donne continuarono a esserne pioniere. Negli anni ‘50 e ’60 i calcolatori non avevano né tastiere né schermi; programmare voleva dire scrivere a mano il programma su carta e tradurre ogni istruzione in una serie di piccoli fori su una scheda. Questa veniva poi data in pasto al computer che produceva i risultati, anche se spesso non erano quelli sperati. A chi programmava si richiedeva precisione, scrupolosità e attenzione. Un lavoro che veniva considerato umile e noioso – la vera gloria stava nella costruzione fisica dei macchinari – alla stregua di quello di una segreteria, motivo per cui si riteneva che le donne fossero più idonee.
Tra queste donne c’era Mary Allen Wilkes, una delle programmatrici più in gamba dell’epoca. Wilkes lavorò presso il MIT Lincoln Laboratory ai progetti IBM 704 – il primo calcolatore in grado di eseguire calcoli in virgola mobile a essere prodotto in massa – e IBM 709, finché nel 1961 fu assegnata alla creazione del LINC, uno dei primi personal computer interattivi del mondo. Dopo dieci anni di onorato servizio come programmatrice, riuscì a realizzare anche il suo sogno primario: diventare un’avvocata. Conseguì una laurea in Legge ad Harvard e dal 1972 iniziò a praticare dedicandosi a cause legali nel settore informatico.
A Grace Hopper, matematica, informatica e militare statunitense, si devono altre importanti invenzioni:
- la realizzazione del primo compilatore della storia, ovvero un programma informatico che traduce una serie di istruzioni scritte in un determinato linguaggio di programmazione;
- la creazione del FLOW-MATIC, un compilatore contenente parole chiave in lingua inglese molto più semplice da usare, che sarà alla base del COBOL, il linguaggio di programmazione creato sempre dall’informatica statunitense e usato ancora oggi (i software scritti in Cobol sono alla base del funzionamento dei bancomat).
Nello stesso team impegnato con Hopper sul COBOL lavorò Jean E. Sammet, che nel 1961 entrò in IBM e diresse il programma di sviluppo per il FORMAC, un sistema algebrico che si affermerà come il primo linguaggio per la manipolazione algebrica delle formule matematiche.
Frances E. Allen, informatica espertissima nell’ottimizzazione del linguaggio Fortran, può vantare ben due primati: fu la prima donna a diventare socia dell’IBM e la prima a vincere il premio Turing.
Della canadese Arlene Gwendolyn non ricordiamo solo che fu la prima donna nera a ricoprire il ruolo di programmatrice, ma anche le parole che disse a suo figlio:
“È stato facile. Al computer non importava che fossi una donna o una persona nera. Per la maggior parte delle donne è stato molto più difficile”.
Ci fermiamo qui, ma ci sarebbero tante altre storie da raccontare.
Nel 1967 Cosmopolitan pubblicò un articolo intitolato “The Computer Girls” in cui si sottolineava come questo fosse uno dei pochi settori in cui le lavoratrici potevano guadagnare molto bene (20.000 dollari all’anno, circa 150 mila dollari oggi) e vivere una sorta di riscatto sociale, nonostante la cultura del tempo precludesse alcuni ruoli anche alle laureate.
Eppure lo stereotipo di genere, che ha penalizzato le vite e le carriere di queste donne, è stato allo stesso tempo fautore dei loro lavori. Alle donne fu assegnata la programmazione perché si sosteneva che le capacità logiche e matematiche fossero affini alla loro tradizionale abilità nello svolgere lavori di precisione come la tessitura e la maglia.
Nel libro “Your career in computing”, uscito nel 1968, si affermava che le persone che amano cucinare seguendo un libro di ricette sono anche brave a programmare.
E tutto questo solo perché l’attività che veniva considerata di maggior valore e interesse era l’hardware, mentre occuparsi del software era ritenuto subalterno e noioso.
Eppure, una volta costruito il computer, erano le donne a farlo funzionare davvero.
Per saperne di più
Ti consiglio di leggere le fonti su cui mi sono basata per scrivere questo articolo e di guardare il talk di Giulia Tosato tenuto in occasione di Codemotion 2021.
Fonti:
https://www.nytimes.com/2019/02/13/magazine/women-coding-computer-programming.html
Articolo di Sabina Scoma, immagine di Marina Ravizza.
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