Si parla spesso, in contesti diversi, di quanto la “risorsa donna” sia ancora poco valorizzata nella società contemporanea. Per l’ambito specifico di cui mi occupo, quello finanziario, le evidenze in tal senso non mancano. Secondo una ricerca condotta di McKinsey&C.[1], è fra le meno impiegate e valorizzate: favorendo la parità di genere, si stima che il PIL mondiale potrebbe crescere di circa 12 trilioni di dollari.
Attraverso il supporto di ricerche e studi, cercherò di dare conto di una evidente contraddizione, ancora non sanata, che riguarda il rapporto tra donne e finanza:
- da una parte si prevede una forte crescita della clientela femminile nel mondo finanziario dei prossimi anni (principalmente per demografia e allungamento della vita media). Negli USA, per esempio, il dato è già evidente e da tempo il Wealth Management si è spostato verso le donne come clienti di riferimento:
“una quantità senza precedenti di attività si sposterà nelle mani delle statunitensi nei prossimi tre o cinque anni, circa 30 trilioni di dollari verranno gestiti dalle donne entro la fine del decennio“
Ricerca di McKinsey&C
- dall’altra parte – ed è questo l’elemento di contraddizione su cui è necessario riflettere e agire in modo efficace – le investitrici sono ancora poco coinvolte in prima persona nella gestione dei propri soldi. D’altro canto, se pensiamo a un altro target di donne che hanno a che fare con la finanza, e cioè le imprenditrici, il discorso mostra ulteriori complessità, perché le aziende a guida femminile, sebbene abbiano in media performance superiori a quelle dello stesso settore ma con leadership maschile, fanno più fatica ad avere accesso al mercato dei capitali e a ricevere investimenti.
Proviamo allora a capire meglio qual è la situazione in Italia e nel mondo in questi ambiti.
Partiamo dalle donne che, con un piccolo o grande capitale personale a disposizione, si trovano nella condizione di dover/voler scegliere quale soluzione di investimento sia più adatta per loro: per pregiudizi culturali e sociali, il più delle volte delegano al partner o a un componente maschile della propria famiglia le scelte finanziarie.
Da tempo mi chiedo come mai questo atteggiamento sia ancora così diffuso e lo sia a prescindere dall’età anagrafica, sebbene le generazioni più giovani – con un’educazione maggiore e maggiore impegno nel sociale, soprattutto in ambito di gender equality – mostrino più coinvolgimento nelle decisioni economiche.
Il Museo del Risparmio, in collaborazione con Episteme, nel 2017 ha realizzato l’interessante ricerca “Le donne e la gestione del risparmio” su un campione di circa 1000 persone (75% donne, 25% uomini) e ha confermato un evidente divario fra uomini e donne sia nella situazione economica che nella gestione dei propri risparmi: gli uomini hanno infatti dichiarato di avere redditi più alti, di essere più interessati e di saperne di più in tema di investimenti, infine di avere maggiore capacità di risparmio e di investimento.
Un dato di rilievo che emerge dalla ricerca, tuttavia, è che più le donne sono consapevoli dei propri obiettivi individuali, più si interessano ai temi economici e finanziari: i soldi, quindi, diventano uno strumento per dare forma a se stesse e realizzare i propri progetti. Le laureate fra i 25 e i 44 anni sono il target più interessante in tal senso, per emancipazione economico-lavorativa, perché sono più propense al risparmio e all’investimento, più informate e comunque, più disposte a farsi seguire da chi per lavoro è in grado di aiutarle nella pianificazione finanziaria.
Al riguardo, e sempre dagli USA, arriva un altro studio, citato da Bluerating, in cui si evidenzia come le donne si sentano spesso ignorate dai consulenti finanziari, che privilegiano i partner maschili come interlocutori sottovalutando le esigenze finanziarie specifiche delle loro clienti.
Quindi il retaggio culturale e sociale con cui dobbiamo fare i conti noi donne riguarda anche chi lavora nella finanza, che in Italia significa prevalentemente uomini difficilmente inclusivi nel linguaggio e nel comportamento abituati a confrontarsi con altri uomini.
La sfida e l’opportunità per questo settore è quindi riuscire a comunicare in maniera efficace a una parte rilevante della popolazione che da qui ai prossimi anni sarà la maggiore detentrice di ricchezza e, oltretutto, l’interlocutrice più adatta per chi fa consulenza. Le donne infatti, nel campo degli investimenti, tendono a essere pazienti e avverse al rischio, il che si traduce in un interesse per i prodotti che promuovono l’equità, l’inclusione e la diversità , temi di sviluppo sostenibile in grado di dare nel tempo solide performance.
Parliamo ora delle imprenditrici, in particolare delle aziende a guida femminile, in cui cioè le donne sono le fondatrici o parte dei board.
In base al report «Women in Technology Leadership» 2019 della Silicon Valley Bank, basato su 1370 aziende internazionali, l’accesso ai capitali per le imprese femminili è ancora un ostacolo, sia per vincoli burocratici (che spesso non premiano aziende poco patrimonializzate o in fase early stage, come le startup), sia per l’atteggiamento delle imprenditrici che fanno ancora resistenza verso il mondo degli investimenti. Eppure, le aziende a guida femminile hanno in media performance migliori di quelle dello stesso settore con leadership maschile: secondo i dati raccolti dall’organizzazione no profit The Catalyst, tra le Fortune 500 in USA quelle con più di tre donne nei ruoli apicali sovraperformano in media i loro competitor in termini di ROS (return on sales), di ROIC (return on invested capital) e di ROE (return on equity).
Inoltre, secondo il Credit Suisse 3000 Gender, hanno un rendimento del flusso di cassa sugli investimenti (ROIC) superiore del 2,04%, con una minore volatilità nel tempo dei risultati. Quindi, migliori performance con minore rischio d’impresa.
Eppure l’accesso ai capitali finanziari per la maggior parte delle aziende a guida femminile, anche e soprattutto per quelle di piccola dimensione, è ancora molto difficile, sia attraverso i canali tradizionali bancari che quelli più innovativi come Business Angel, Venture capital o Private equity – cioè forme di finanziamento diretto da parte di privati, istituzioni o fondi di investimento specializzati che, oltre al capitale messo a disposizione, intervengono nel c.d.a. aziendale, portando esperienza, competenze e obiettivi di medio-lungo termine per favorire la crescita e lo sviluppo dell’azienda target.
Un esempio interessante in Italia in tal senso è quello di Redpublic: con la Ceo Giada Maldotti ho avuto modo di confrontarmi proprio sul tema della finanza inclusiva e delle forme di finanziamento alternativo che ho citato. In queste settimane Redpublic (azienda di consulenza al 100% femminile) ha avuto un primo intervento di equity da parte di un privato finanziatore, Guido Fienga, che è entrato nel c.d.a. come Presidente, portando nell’azienda non solo capitale ma anche una lunga esperienza professionale.
Che cosa possiamo dunque aspettarci dal settore bancario-finanziario in ambito di finanza inclusiva?
In linea con il 5° Global Goal definito dall’Onu, che richiama il tema della parità di genere, il mondo della finanza ha di fronte a sé l’opportunità di realizzare soluzioni di investimento che abbiano come focus aziende a leadership femminile e che, al contempo, abbiano anche un impatto positivo sulla vita delle donne, in un felice connubio fra rendimento finanziario e avanzamento sociale e culturale.
[1]Jonathan Woetzel et al., The Power of Parity: How Advancing Women’s Equality Can Add $ 12 trillion to Global Growth, McKinsey Global Institute, September 2015.
La rubrica “In borsa” è curata da Valentina Proietti Muzi, immagine di Claudia Valentini.