IL CALCIO FEMMINILE, UNA QUESTIONE DI TECNICA E CULTURA.

Quando siamo piccole e piccoli ci raccontano delle storielle che diventano subito i più grandi stereotipi contro cui ci troveremo a lottare per tutta la nostra vita: rosa per le femminucce/azzurro per i maschietti e poi la danza per le bambine/il calcio per i bambini. Storielle che creano subito disuguaglianza e discriminazione. 

Mi sono sempre occupata di parità di genere in politica e nell’impresa, ma nel calcio mi mancava. E invece è arrivato anche questo “campo”: a gennaio sono stata eletta Responsabile Calcio Femminile del Comitato Regionale Abruzzo della Lega Nazionale Dilettanti e anche qui ho deciso di mettere tutto il mio impegno per andare oltre gli stereotipi e lavorare su una cultura del calcio che sia al contrario inclusiva, che faccia sentire alle bambine e alle ragazze di essere a casa, che faccia comprendere loro che il calcio è uno sport di e per tutte e tutti. In fondo a portare le bambine e i bambini su un campo di calcio sono gli stessi motivi: entusiasmo, passione, voglia di divertirsi e stare con gli altri, senso di libertà nel dare un calcio a un pallone, voglia di sentirsi parte di una squadra. È per questo che rispetto e uguaglianza sono contenuti chiave nel nostro progetto per il calcio femminile abruzzese per i prossimi 4 anni. 

La breccia culturale aperta dalle Ragazze Mondiali nel 2019 e la vittoria dell’Italfutsal (Calcio a 5) alla Freedom Cup nel 2020 hanno portato l’Italia e i suoi colori nel mondo, conquistando i cuori degli italiani e delle italiane, e avviando negli ultimi anni una nuova stagione per il movimento del calcio femminile. Solo qualche numero sul calcio a 11 femminile nel nostro Paese: nel 2019 le calciatrici tesserate in Italia erano circa 24 mila, con un incremento di squadre femminili nelle società dilettantistiche; Qs Sport ha stimato un incremento del +40% del numero di richieste di iscrizione presso le scuole calcio femminili (fonte: www.mentalfootball.it).

Una crescita quantitativa che negli anni è stata accompagnata da una crescita tecnico-agonistica continua delle calciatrici: le accusavano di gioco lento, poco avvincente e appassionante, ma credetemi ultimamente ho visto diverse partite della Serie A e vederle correre, giocare e segnare smentisce quelle critiche. 

Ma complice di questa crescita deve essere necessariamente un lavoro che incida e diffonda i principi e la bellezza del calcio femminile, una cultura fatta di tanti “passaggi”, tematiche e sensibilità, che nasce dai valori dello sport, valori base in cui chi ama il calcio si ritrova.

E poi il calcio femminile merita dirigenti preparati/e a ogni livello. La formazione e la conoscenza devono “investire” tutte le società, soprattutto quelle dilettantistiche che spesso vivono una vita sportiva – e non solo – di provincia. L’alimentazione, il tema del corpo, la prevenzione, il rispetto e l’uguaglianza, la comunicazione sono tematiche così vicine al ruolo della calciatrice che costituiscono il cuore di un sistema di formazione che va messo al centro di questa nuova cultura del calcio femminile. E solo dando a queste società gli strumenti giusti, potranno crescere.

Lo sport del calcio va letto anche come un grande strumento di empowerment delle bambine e delle ragazze: il sapere di poter portare avanti la passione per il proprio sport permette di andare oltre gli stereotipi, superare le discriminazioni, giocare e vincere in campo ma soprattutto nella vita. Di realizzare se stesse e i propri sogni, insomma. Il calcio ha un ruolo sociale che non dobbiamo dimenticare, anzi che dobbiamo rimettere al centro, come la palla su un campo da gioco prima del calcio d’inizio di una partita.

Nulla esiste se non viene nominato, poiché non entra nell’immaginario collettivo. È per questo che le storie del calcio femminile, quelle delle calciatrici, delle loro Società o delle scuole calcio, vanno raccontate, e poi raccontate, e raccontate ancora con l’obiettivo di dare un modello a cui guardare perché continuino a nascere nuovi futuri esempi. Dinamismo, benessere, positività e determinazione rappresentano questo calcio oggi, un calcio che dà role model, modelli di giovani donne, ambasciatrici dello sport praticato, appassionate e capaci, a cui possono ispirarsi le tante bambine che scelgono questo sport, preferendolo ad altri. 

Perché negli anni in cui finalmente il calcio femminile si avvia al professionismo – dal 2022 anche le calciatrici si vedranno contributi pagati e malattie riconosciute – le bambine devono sapere che in questo sport possono fare finalmente carriera.

A marzo sul palco di Sanremo una di loro, la bomber della Juventus e calciatrice della Nazionale, Cristiana Girelli, ha mandato un grande messaggio: 

“Dal Mondiale qualcosa è cambiato. A tutti quelli che mi chiedono cosa sia successo, rispondo che siamo un gruppo forte e unito che, quando ha deciso di andare in Francia, lo ha fatto non tanto per vincere, ma per mandare un messaggio socio-culturale ben preciso: d’ora in poi ci sono due nazionali da tifare, perché c’è anche quella femminile”.

Cristiana Girelli


Il mio obiettivo è creare anche in Abruzzo una nuova generazione di giovani calciatrici, perché il calcio femminile è la grande occasione che questo sistema ha perché tutto il calcio possa crescere e migliorarsi.


Articolo di Laura Tinari, Responsabile Calcio Femminile – L.N.D. Comitato Regionale Abruzzo. Immagine di Claudia Valentini.

L’impatto della Brexit sulle donne nel Regno Unito

L’Unione Europea è sempre stata un’influenza positiva nello sviluppo delle politiche di genere del Regno Unito.

Il 31 dicembre, esattamente alle 23:00 (mezzanotte a Bruxelles), dopo quasi quattro anni di aspre negoziazioni, tre piani di ritiro falliti e due elezioni generali, la Gran Bretagna ha formalmente terminato 47 anni di relazione con l’Unione Europea. Ma il mondo post Brexit non sembra essere dei migliori per le donne.

Il rapporto “Women & Brexit” scritto da Mary Honeyball, eurodeputata e Vice Presidente del Women’s Rights and Gender Equality Committee del Parlamento europeo, e Hannah Manzur, Gender Policy Advisor per Jackie Jones MEP, mette in evidenza le implicazioni legali, economiche, politiche e sociali della Brexit e l’impatto negativo che avranno sulle donne.

All’interno del progetto della Brexit, i diritti delle donne sono stati sacrificati e non considerati degni dell’attenzione generale. Le donne nel Regno Unito si stanno facendo carico dei costi di una decisione politica in cui la loro voce e i loro interessi non sono stati adeguatamente rappresentati.

L’IMPATTO DELLA BREXIT SUI DIRITTI DELLE DONNE E SULLA PARITÀ DI GENERE

Con la perdita della protezione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, della Corte di Giustizia e della giurisprudenza dell’UE, gli attuali diritti standard di uguaglianza saranno vulnerabili a modifiche, abrogazioni e revoche post-Brexit.

A rischio sono i diritti e gli standard di lavoro attuali e futuri a vantaggio delle donne; questi includono i diritti alla protezione delle lavoratrici in maternità e i congedi parentali e di assistenza, i diritti delle lavoratrici atipiche e le quote di genere nei consigli di amministrazione delle aziende.

In questo report viene messo in evidenza come il governo britannico, infatti, non sia riuscito a intraprendere azioni necessarie per proteggere i diritti standard, rifiutandosi di seguire le raccomandazioni dell’EHRC e del Comitato delle donne, dimostrando noncuranza nei confronti dei diritti delle donne e della parità di genere.

L’IMPATTO SOCIOECONOMICO DELLA BREXIT SULLE DONNE

I costanti e continui tagli all’economia dovuti alla Brexit e all’Austerity post-COVID continueranno e avranno un impatto devastante e sproporzionato sull’economia femminile.

Gli accordi presi non tengono conto dell’esistente disparità di genere e contribuiranno a rendere il gender pay gap e il divario pensionistico ancora più grande, aumentando lo svantaggio economico delle donne.

• Si prevede che l’austerity continuerà a causa della Brexit, in gran parte a scapito delle donne che hanno sostenuto nell’ultimo decennio l’86% dei costi delle politiche di austerity.

• I previsti tagli alla spesa pubblica colpiranno più duramente le donne in quanto utenti primari dei servizi pubblici, beneficiarie di sussidi sociali, lavoratrici del settore pubblico e assistenti di cura non retribuite.

• Le donne sono i principali ammortizzatori della povertà famigliare e sosterranno il peso maggiore degli aumenti della spesa famigliare, indotti dalla Brexit e della diminuzione del reddito.

SOTTORAPPRESENTAZIONE DELLE DONNE NEI MEDIA

Le donne non sono state rappresentate nel corso dei dibattiti parlamentari, nelle ultime campagne elettorali e nelle posizioni decisionali chiave sulla Brexit. Tra i ministri impegnati nella negoziazione con l’Unione Europea, le donne rappresentavano solo l’11- 25%.

Oltre alle loro voci, anche il tema donne e Brexit è stato emarginato. Non vi è stato alcun dibattito formale in Parlamento, solo il 2-6% del programma della campagna referendaria ha affrontato questioni di parità di genere. Non vi è stata nessuna menzione in Parlamento da parte dei primi ministri Theresa May e Boris Johnson e pochissima copertura mediatica a riguardo.

Secondo il report e l’analisi condotta dal Women’s Equality Party, il post-Brexit vedrà una grave tendenza verso l’esclusione e il silenziamento delle voci e degli interessi delle donne, con una predominanza di quelli maschili, offuscati dal mito di una Brexit “gender-neutral”.

Il linguaggio mascolinizzato della campagna e le tattiche di silenziamento, che sono state utilizzate contro le giornaliste e le politiche nel corso degli ultimi quattro anni, continueranno. Il post-Brexit avrà un effetto sui diritti delle donne e sui gruppi e le organizzazioni che lottano per garantire la parità di genere in termini di influenza politica, nel lavoro, di advocacy, capacità di networking e potere di lobbying.

La perdita o la diminuzione di queste capacità potrebbe rallentare il progresso sull’uguaglianza di genere, inibendo il lavoro di individui e gruppi che spingono verso il cambiamento.

È probabile che questi gruppi verranno anche colpiti dalla diminuzione dei fondi post-Brexit, poiché il finanziamento sostitutivo del Regno Unito è incerto e i dettagli su importo, priorità e allocazione restano ancora indeterminati.

IMPATTO SULLE COMUNITÀ NERE, ASIATICHE, EUROPEE E LGBTQI +

Il rapporto esplora anche il carattere intersezionale del problema, individuando come alcuni gruppi di donne verranno più colpiti di altri dall’impatto della Brexit.

Le nuove leggi avranno implicazioni in particolar modo sulle migranti nere, asiatiche e su altre minoranze etniche, sulle musulmane, sulle donne disabili e LGBTQI +, nonché sulle vittime di violenza e su tutte le donne che vivono in Galles, Scozia e Irlanda del Nord.

Anche le cittadine europee dovranno affrontare una moltitudine di sfide legate al nuovo “settled status” che andrà a svantaggiarle in modo sistematico.

L’Unione Europea, tra l’altro, forniva miliardi che andavano a finanziare progetti legati alla parità di genere e all’uguaglianza sociale, e milioni erano quelli destinati a organizzazioni femminili e servizi di supporto.

Il defunding post-Brexit per gruppi e servizi sta già raggiungendo il punto di rottura e, a causa dell’austerity, è già stato negato un supporto vitale ai servizi “che cambiano e salvano la vita” a migliaia di donne vulnerabili.

Il finanziamento sostitutivo del Regno Unito è infatti precario e disorganizzato: il Fondo britannico non ha ancora rilasciato dettagli sull’ammontare, l’allocazione, la durata o le priorità dei fondi, lasciando i gruppi e i servizi femminili in un limbo.

Un rapporto del governo ha riconosciuto che i finanziamenti potrebbero diminuire come risultato diretto della Brexit, nonostante la retorica pubblica suggerisca il contrario.

Inoltre, la Brexit sta creando diversi rischi per le vittime di violenza sessuale e domestica in un momento in cui i servizi di sostegno alle donne sono cronicamente sotto-finanziati.

Il Regno Unito continua a ritardare indefinitamente la ratifica della Convenzione di Istanbul, mentre i tassi di violenza sulle donne nel Regno Unito sono tra i peggiori in Europa (e in aumento).

Le vittime non avranno più accesso a protezioni di trans-frontiera come gli EPO (il governo ha respinto gli emendamenti per mantenerli), i fondi vitali dell’UE per i servizi di supporto sono minacciati.  Si prevede inoltre che la violenza domestica aumenterà man mano che le famiglie si troveranno ad affrontare le difficoltà economiche indotte dalla Brexit.

Per quanto riguarda le migranti e i requisiti per il “diritto di soggiorno”, la situazione è già complessa, ma con la Brexit potrebbe aggravarsi.

L’inattività economica legata alle responsabilità di assistenza e di cura della famiglia e degli anziani rende la condizione economica delle migranti estremamente precaria, aumentando le difficoltà nell’acquisire uno status stabile per i figli, e difficoltà nell’accedere ai documenti richiesti per il permesso di soggiorno, in un sistema progettato essenzialmente per “l’uomo produttivo”.

Mandu Reid, Leader del Women’s Equality Party, crede che Covid e Brexit potrebbero segnare l’inizio di un cambiamento per i diritti delle donne nel Regno Unito.

“Da appassionata “remainer” è difficile affrontare la realtà della Brexit, ma è necessario. Ciò che non è necessario è il declino dei diritti conquistati dalle donne con fatica, ed è per questo che, da leader del Women’s Equality Party, sarò vigile sulle mosse che questo governo farà”.

Mando Reid, leader del Women’s Equality Party.

Fonti:

Women and Brexit

Statement from Mandu Reid on the government’s mini-budget 2020


Articolo scritto da Rossella Forlè, immagine di Marina Ravizza.

Periodica #3: cinque curiosità sulle mestruazioni da giocarsi all’aperitivo.

Non so voi, ma la mia cultura odierna è stata fortemente impattata dalla Settimana Enigmistica: ogni volta che andavo a trovare i nonni, mi fiondavo a divorare le rubriche Forse non tutti sanno che.. e l’Edipèo Enciclopedico. Adoro conoscere una moltitudine di aneddoti più o meno rilevanti, che sommati mi permettano di leggere il mondo e raccontarlo con molte più sfumature.

La scienza dimostra che l’apprendimento è stimolato dalla curiosità, che per fortuna può essere allenata. Periodica vuole essere un punto di partenza per una maggior comprensione e conoscenza del ciclo mestruale e dei suoi impatti sulle nostre vite e sulla società.

Per questo, sperando ci perdonerete l’azzardo di accostarci a ben più famose e storiche rubriche, vi proponiamo una prima selezione di curiosità legate al ciclo mestruale. Pur esistendo fantastiliardi di leggende e false credenze sulle mestruazioni, i 5 Lo sapevi che? di questa rubrica sono fatti reali, che speriamo possano diventare argomento di conversazioni che aiutino a smantellare le dicerie sull’argomento, e che soprattutto rendano le mestruazioni un argomento interessante di cui parlare. 

CURIOSITÀ N° 1: le mestruazioni nello spazio

Grazie a un gruppo di solerti scienziati della Nasa le mestruazioni sono diventate un argomento spaziale. Nel 1983 Sally Ride fu la prima astronauta statunitense a raggiungere lo spazio. In preparazione alla missione, che sarebbe durata 7 giorni, le fu chiesto se 100 fosse un numero di tamponi adeguato a fronteggiare le sue eventuali mestruazioni in orbita. Lei dribblò l’evidente scarsa conoscenza dell’argomento dei colleghi con grande eleganza, rispondendo laconicamente che no, non sarebbe stato un numero adeguato. 

La giustificazione di scienziati e ingegneri fu che la proposta dei 100 tamponi nascesse dall’intenzione di “voler solo essere sicuri”. Ok, ma sicuri rispetto a cosa? Probabilmente rispetto a un tema così tabù da metterli a disagio. Cento tamponi non sono bastati a proteggerli, anzi, li hanno fatti entrare nella storia per l’ignoranza dimostrata sulle tematiche di gestione dell’igiene mestruale. E se ci sono cascati degli scienziati della Nasa, è sicuro che abbiamo ancora un gran lavoro di divulgazione da fare.

Oggi, a scanso di equivoci, la Nasa ha assunto Varsha Jain, fisica britannica nota come “Ginecologa Spaziale”. Nonostante questa figura più competente, le astronaute scelgono generalmente di ritardare l’arrivo delle mestruazioni in occasione di missioni spaziali con metodi ormonali

CURIOSITÀ N°2: la banca del sangue mestruale

Secondo alcuni il mondo è governato dalle banche. Oltre alle banche tradizionali, esistono effettivamente la banca del seme, la banca del tempo, ma sapevate che esiste anche la banca del sangue mestruale? 

Il sangue mestruale è in effetti una risorsa preziosissima, che merita di essere raccolta e utilizzata per migliorare la nostra salute a partire dalle cellule staminali in esso contenute.

Semplificando, le cellule staminali sono cellule ad alto potere rigenerativo che non hanno ancora assunto una specializzazione e che possono quindi trasformarsi in diverse tipologie di cellule mature. Vengono raccolte, ad esempio, dal midollo osseo, per poter essere utilizzate per rigenerare organi e tessuti coinvolti in caso di patologie o conservate in via preventiva, come per le cellule del cordone ombelicale.

All’interno del sangue mestruale troviamo cellule staminali dette “rigenerative endometriali” (Erc) capaci di differenziarsi in nove differenti tipi di tessuti, tra cui cardiaco, epatico e polmonare. Senza addentrarci nelle caratteristiche scientifiche più dettagliate, gli aspetti più interessanti sono sicuramente due.

Il primo riguarda la rapidità con cui possono essere coltivate e replicate in laboratorio, incredibilmente superiore se comparato alle cellule prelevate da cordone ombelicale e midollo osseo. Uno studio ha mostrato che da 5 millilitri di sangue mestruale prelevato da donne sane si possono ottenere abbastanza cellule staminali da coltivare, nel giro di due settimane, cellule cardiache funzionanti, che si contraggono come il cuore.

Il secondo aspetto ha a che fare con semplicità e frequenza di raccolta: il sangue mestruale può essere comodamente raccolto con normali coppette siliconiche in maniera non invasiva né dolorosa, a differenza degli altri tipi di staminali, e può essere prelevato durante tutto il periodo fertile della vita.

Ad oggi esistono alcuni istituti privati internazionali che offrono servizi di raccolta e conservazione del sangue mestruale, e possiamo augurarci che con l’avanzamento della ricerca scientifica sull’argomento si arrivi ad avere una gestione pubblica che permetta a chiunque abbia le mestruazioni di contribuire al proprio benessere e a quello di tutta la società. 

CURIOSITÀ N° 3: il film Disney sulle mestruazioni

Spesso i film Disney sono oggetto di discussione circa l’impatto che hanno nel formare la percezione dei ruoli di genere in spettatori più o meno giovani. Negli ultimi anni, sono state tantissime le eroine che hanno reso evidente lo sforzo nel ridurre il gender gap e che seguono decenni di principesse bellissime sì, ma che necessitavano dell’intervento maschile per essere salvate da svariate situazioni difficili.

L’approccio sembrerebbe lineare: dopo tanti anni di narrazione tradizionalista, si passa ad una visione più contemporanea, che rinnovi anche il posizionamento del brand, ma c’è un elemento sorprendente in questa storia. Nel 1946 Disney pubblicava The Story of menstruation,il primo cortometraggio sulle mestruazioni. Non solo: si tratta della prima opera audiovisiva in cui si nomina la vagina. 

Non si tratta certo di un cortometraggio memorabile per la sceneggiatura, quanto più di un filmato informativo, sponsorizzato dal brand Kotex, che abbiamo conosciuto nel secondo articolo di Periodica, che però offre alcuni consigli scientificamente accurati. Certo, il sangue mestruale è rappresentato in bianco e vi sono riferimenti alla visione del ruolo femminile di donna e madre tipici della società dell’epoca, ma sono apprezzabili l’intenzione di fare educazione sull’argomento, il fatto che le mestruazioni siano chiamate mestruazioni, e che vengano sfatati alcuni miti perché, come dichiarato nel corto, “There’s nothing strange or mysterious about menstruation”, non c’è nulla di strano o misterioso riguardo alle mestruazioni.

A seguito della proiezione riservata alle sole studentesse, veniva consegnato loro Very Personally Yours, un fascicolo di approfondimento che conteneva anche un diario per tenere traccia del ciclo. La proiezione del cortometraggio è proseguita nelle scuole americane fino alla fine degli anni ’60, raggiungendo circa 100 milioni di studentesse. 

Nonostante alcuni limiti, The Story of Menstruation parla in modo più chiaro e meno imbarazzato di mestruazioni e corpo femminile di quanto facciano molti materiali odierni. Sarebbe auspicabile che venissero sviluppati nuovi contenuti educativi da portare in tutte le scuole italiane, anche ispirati alle intenzioni di questo primo esperimento.

 CURIOSITÀ N° 4: il potere dell’emoji a forma di goccia di sangue mestruale

La normalizzazione delle mestruazioni passa anche attraverso gli strumenti di comunicazione disponibili per parlarne. 

Gli emoji sono simboli pittografici che hanno un significato globale, che supera le barriere linguistiche e che arricchiscono le nostre conversazioni digitali scritte. Ne esistono praticamente per rappresentare ogni cosa: dagli stati d’animo, agli elementi naturali e artificiali, fino alle idee. Eppure, fino al 2019 non esisteva un emoji dedicato alle mestruazioni.

Potrebbe sembrare una questione di poco conto ma non lo è, perché, come visto nel primo articolo di Periodica, facciamo ancora tantissima fatica a parlare di mestruazioni e a chiamarle per nome. Questo ci allontana da una reale comprensione del funzionamento del nostro corpo e dell’empowerment che ne può derivare. In questo senso, un semplice emoji che rappresenta una goccia di sangue diventa uno strumento potentissimo per portare le mestruazioni nelle nostre conversazioni nel modo più normale e quotidiano possibile, soprattutto per le generazioni più giovani.

La nascita di questo emoji è stata travagliata e caratterizzata dalla necessità di trovare compromessi. Nel 2017, la no profit inglese Plan International, che si occupa di educare le generazioni più giovani, realizza una ricerca che evidenzia l’opportunità di contrastare lo stigma legato al ciclo con uno strumento di comunicazione adeguato.

Plan International quindi indice un sondaggio online che coinvolge circa 55.000 utenti e che identifica nel pittogramma rappresentante un paio di mutande macchiate di sangue l’emoji ideale per parlare di mestruazioni. Lo presenta quindi al Consorzio Unicode – responsabile della gestione globale degli emoji – ma riceve un secco rifiuto. Pur di raggiungere il risultato prefissato però stringe una partnership con il Servizio Sanitario Nazionale Inglese, in particolare con la sezione trasfusioni di sangue, presentando questa volta il simbolo della goccia di sangue, che viene accettato. 

Certo si tratta di un compromesso, in quanto l’accettazione è legata al fatto che la goccia di sangue possa essere connessa al più ampio tema della donazione e non solo delle mestruazioni. Ciò detto è auspicabile che l’utilizzo quotidiano di questo emoji ne rafforzi il riferimento al sangue mestruale.

CURIOSITÀ N° 5: l’isola degli uomini mestruati

La narrazione comune ci abitua a pensare alle mestruazioni come ad una gigantesca inutile scocciatura, ma questa visione rispecchia un approccio maschilista e patriarcale in cui viene sottovalutato e sottostimato l’impatto generativo del ciclo mestruale. 

Secondo l’interpretazione dello psicanalista austriaco Bruno Bettelheim questo atteggiamento denigratorio si spiegherebbe con una invidia da parte degli uomini nei confronti del potere femminile di sanguinare: “Potrebbe darsi che la gravidanza e le mestruazioni elevassero le donne a tal punto che gli uomini cercarono di imporre dei tabù e dei miti sgradevoli sulle donne in flusso mestruale”.

Questo tipo di visione potrebbe essere confermato da alcune ritualità che si ritrovano in comunità tribali in Australia, Sud America, Africa e alle Isole Fiji, in cui gli uomini praticano riti che permettono loro di simulare le mestruazioni.

Il caso più noto è certamente quello praticato dagli uomini di Wogeo, nota anche come Isola degli uomini mestruati, in Papua Nuova Guinea, che emulano la purificazione mestruale incidendo mensilmente i genitali affinché emettano sangue durante i rituali, e rendendoli più somiglianti alla vulva tramite la cicatrice generata.

Un altro rito che simula la generazione della vita è invece attuato dalla popolazione australiana dei Wonkgongaru che, per propiziare la pesca, vede gli uomini immergersi in acqua e perforarsi lo scroto per fertilizzarla.  

Certamente sono casi distanti dalla nostra esperienza quotidiana, ma che ci aiutano a cambiare prospettiva e capire che le mestruazioni non sono una tematica esclusiva di genere.

Alcuni spunti che ci portiamo a casa da questo articolo enciclopedico, perché ehi, la teoria va sempre messa in pratica:

  • Nemmeno gli scienziati della Nasa conoscono a sufficienza il ciclo mestruale. Fare divulgazione quotidiana è un impegno per tutte le persone che vivono le mestruazioni.
  • Ci sono grandissime potenzialità ancora inesplorate legate al sangue mestruale che possono avere impatti importanti sulla salute pubblica. Sono necessarie azioni affinché queste tematiche vengano incluse nelle agende politiche e scientifiche.
  • La cultura sulla comprensione e normalizzazione delle mestruazioni deve coinvolgere le nuove generazioni fin dall’infanzia.
  • Le nuove tecnologie possono essere nostre alleate nella promozione di un approccio linguistico più inclusivo e che aiuti a scardinare tabu ormai anacronistici.
  • Il sangue mestruale non è raccapricciante. È ora che le persone smettano di sentirsi schifate di fronte a un evento biologico che non solo è naturale ma ha evidenti poteri rigenerativi.

Periodica è una rubrica a cura di Martina Palmese. Immagine di Alessandra D’Amico.

In borsa #2: che cos’è l’investimento “con la lente” di genere?

Il mondo finanziario è sempre più attento al tema gender diversity. Si tratta di una questione di convenienza? Probabile, dal momento che la parità di genere è in grado di apportare anche benefici economici.

Nel secondo appuntamento di “In borsa” voglio parlarvi del Gender Lens Investing (GLI). L’investimento “con la lente” di genere è un approccio di investimento finanziario, diffuso soprattutto nei Paesi anglosassoni, che ha come obiettivo quello di coniugare il perseguimento di risultati economici con un impatto positivo sulla vita delle donne.

I fattori che vengono analizzati da operatori e operatrici impegnat* nel Gender Lens Investing quando prendono le loro decisioni di investimento sono molteplici:

  • equità sul posto di lavoro, intesa anche come supporto economico e finanziario alle imprenditrici;
  • analisi delle condizioni che favoriscano l’accesso ai capitali;
  • realizzazione di prodotti e servizi in grado di beneficiare le donne (come, per esempio, percorsi di formazione e aggiornamento professionale o accesso a servizi di welfare aziendale).

Il Gender Lens Investing viene fatto rientrare nel più ampio settore degli investimenti ESG (Environmental, Social, Governance), perché chi investe “con la lente” nonsolo ottiene rendimenti superiori alla media, ma incide anche in modo significativo sullo sviluppo economico e sociale.

Esistono molti studi che dimostrano come negli ultimi anni i fondi di investimento abbiano iniziato a dichiarare l’uso del GLI nella selezione delle aziende su cui investire.

Uno di questi studi è il Wharton Project Sage 2.0, condotto da Wharton University of Pennsylvania e Social Impact Initiative. I suoi obiettivi sono vari, ma ne indico tre che, ai fini di questo articolo, sono i più rilevanti:

  • Fornire un panorama aggiornato di fondi di private equity/debt, venture capitalche operano con una lente di genere.
  • Presentare le tendenze nel settore in ottica di genere.
  • Fornire informazioni sul motivo per cui i fondi che utilizzano costantemente una lente di genere nei loro investimenti spesso non lo dichiarano pubblicamente.

Quello che emerge, infatti, è che molti fondi oggetto dello studio non sono commercializzati né pubblicizzati esplicitamente come investimenti GLI, ma il loro approccio diventa chiaro dal confronto diretto con chi gestisce i fondi stessi. 

L’effetto di questo atteggiamento è che è sempre più difficile determinare quali fondi e quali attività di impatto rientrano negli investimenti con lente di genere.

A ciò si aggiunga la complessa questione di quali attività/elementi siano da far rientrare nella categoria degli investimenti GLI (che chi investe sia una donna? O che l’investimento abbia un impatto sulle donne?). In tal modo la definizione di gender lens investing si amplia, ma i suoi contorni diventano più sfumati.

Di certo, c’è più interesse e più capitale finanziario che sta confluendo nel settore dei private markets,ma ancora c’è molto da fare rispetto all’uniformità di definizione e, soprattutto, rispetto a un processo codificato di selezione delle aziende su cui investire grazie all’approccio GLI.

L’elemento interessante dello studio Project Sage 2.0 è dato dal fatto che sono stati selezionati fondi che agiscono “con la lente”, pur non dichiarandolo esplicitamente. 

La ricerca si è concentrata su circa 87 fondi di investimento: nel 2017, nella prima versione del Project Sage, le aziende in cui erano investiti questi fondi erano circa 500; nel 2019, quando è uscita la seconda versione, le aziende sono diventate più di 800. A livello geografico, il Nord America è stata nuovamente la regione su cui si sono concentrati più investimenti: tuttavia, rispetto alla prima versione dello studio, la percentuale è scesa a favore di altre aree geografiche, come l’Europa o l’Africa. 

Ma che cosa hanno risposto i gestori di questi fondi alla domanda su cosa intendano per gender lens investing

• Promuovere le professioniste nella finanza (più gestrici di fondi e donne nei comitati di investimento);

• Promuovere le donne nella leadership aziendale;

• Promuovere prodotti e servizi che migliorano la vita delle donne;

• Promuovere le aziende che trattano “bene” le dipendenti;

• Promuovere le aziende che migliorano la vita delle donne.

In conclusione, vorrei tornare all’ultimo dei tre obiettivi del Project Sage 2.0, cioè dare informazioni sul perché questi fondi che concretamente utilizzano un approccio GLI non lo rendano pubblico. 

Due dati sono interessanti più di altri: il 75% di chi ha risposto ritiene che il proprio impatto sulle donne (o sul tema di genere in senso ampio) sia ovvio e che non sentono il bisogno di dichiararlo esplicitamente. Tuttavia, il 63% ha affermato di non dichiarare pubblicamente la propria lente di genere per non scoraggiare i potenziali investitori che non sono attenti o non ritengono rilevante questo obiettivo.

Ed è qui che si inserisce una riflessione finale sul valore dell’informazione e della diffusione dei dati: quanto più i dati sulle performance delle aziende guidate da donne saranno disponibili, quanto più l’attività di sensibilizzazione sul valore della diversità in azienda e nel sistema economico e finanziario diventerà patrimonio comune, tanto più sarà possibile far confluire investimenti su quella parte della nostra società che produce ricchezza, ma che finora ha avuto poca attenzione dagli operatori finanziari qualificati e scarso accesso ai capitali.

Vuoi recuperare il primo articolo di “In borsa”? Clicca qui.


La rubrica “In borsa” è curata da Valentina Proietti Muzi, immagine di Claudia Valentini.

Cos’è il curriculum nascosto?

Le bambine si considerano meno brillanti dei loro coetanei maschi. Ciò avviene tra i cinque e i sei anni secondo un recente studio pubblicato su “Science”.

Lin Bian, ricercatrice dell’Università dell’Illinois che ha condotto la ricerca, afferma che questi risultati potrebbero avere importanti implicazioni per le donne nella scelta della propria carriera, spingendole a tenersi lontane da studi associati all’intelligenza, come fisica, filosofia o ingegneria e modificando così fin dai primi anni di vita le traiettorie educative e di carriera.

Com’è possibile? Perché le bambine, sin dalla prima elementare, pensano che i maschi siano più bravi di loro?

Una delle teorie più interessanti per spiegare questo fenomeno è il curriculum nascosto (hidden curriculum).

Il curriculum nascosto è quell’insieme di valori e comportamenti non esplicitamente menzionati legati alla sfera degli stereotipi di genere. Il curriculum nascosto “passa” attraverso i media per l’infanzia, i materiali didattici, le relazioni, il linguaggio, le aspettative degli e delle insegnanti, le attese delle famiglie sul futuro di figlie e figli.

Ecco di seguito qualche esempio concreto per avere consapevolezza dei messaggi impliciti che le bambine e i bambini imparano sin dalla prima infanzia:

SCUOLA

Vari studi di Paesi diversi hanno mostrato che gli e le insegnanti tendono a incoraggiare passività e conformismo nelle loro allieve, mentre valorizzano indipendenza e individualità negli allievi.

In questo modo si consente ai maschi un comportamento peggiore, ritenendolo naturale (“boys will be boys”), e per la stessa ragione ci si aspetta che le femmine si facciano carico di attività di tipo “domestico” come prendersi cura degli altri o mettere in ordine l’aula. Generalmente, si percepiscono le femmine come più cooperative e malleabili e i maschi come più sicuri e capaci. Anche quando si ritiene che le femmine siano studenti migliori, come dal corpo insegnanti di scienze nello studio maltese di Chetcuti (2009), la ragione che si adduce è comportamentale e non cognitiva o intellettuale. Le femmine quindi sarebbero più precise nel loro lavoro e “più studiose” dei maschi. Così, la generale inconsapevolezza di chi insegna nell’utilizzo del genere come fattore importante di organizzazione e di classificazione, unita ai preconcetti impliciti sul genere, ha avuto un effetto profondo sul comportamento di studenti e studentesse. Presenti nella stessa classe, ascoltando le stesse lezioni, leggendo lo stesso libro di testo, le bambine e i bambini ricevono quindi un’istruzione molto diversa.

MATERIALE DIDATTICO

In una recente ricerca, Irene Biemmi, ricercatrice e formatrice esperta di Pedagogia di genere e delle pari opportunità, evidenzia come la scuola “si configura come motore propulsore di una visione tradizionale e stereotipata dei ruoli maschili e femminili, a partire dai libri di testo”. 

I testi scolastici offrono indicatori importanti sulla diffusione degli stereotipi di genere nel sistema educativo. Influisce molto il linguaggio usato: ad esempio, i maschi “ridono”, le femmine “ridacchiano”. Il 59% dei protagonisti sono maschi e le professioni a loro attribuite sono 50, contro le 15 svolte dalle donne. Un personaggio femminile su 4 è definito solo dal ruolo di madre. E quelle che non cucinano vengono criticate.

Così “i bambini lettori vengono incentivati a ‘puntare in alto’ offrendo loro un’ampia possibilità di scelta e modelli particolarmente gratificanti; per le bambine vale l’esatto contrario”. Perché “se la maggior parte delle professioni (e in particolare quelle più prestigiose e appetibili) sono attribuite al genere maschile sarà altamente improbabile che una bambina possa aspirare a farle proprie“. “Il lavoro casalingo è gravoso ma mai remunerato, e quindi viene inteso spesso dai bambini come un dovere biologico della donna-madre-moglie”.

CARTELLI STRADALI

Nel segnale triangolare che allerta l’automobilista circa la prossimità di luoghi frequentati dai e dalle minori (scuole, campi da gioco, giardini) c’è un bambino con una borsa grande che corre tenendo per mano una bambina con una borsa piccola. Il chiaro messaggio di questo segnale rimanda non solo all’idea della protezione del bambino verso la bambina, ma le diverse dimensioni delle borse ci fanno immaginare che il bambino abbia molte più cose interessanti da trasportare rispetto alla bambina.

ABBIGLIAMENTO

I bambini e le bambine normalmente non indossano borse e borselli, rispetto agli adulti hanno quindi un bisogno maggiore di mettere qualcosa in tasca: la macchinina con cui giocare quando si annoiano, i sassolini raccolti al parco, le caramelle, il fazzoletto. Ma spesso troviamo nei capi per maschi tasche e taschini vari, nei capi per femmine tasche finte o del tutto assenti. Delle semplici tasche ci fanno capire che, secondo i brand d’abbigliamento, i bambini hanno qualcosa da conservare delle loro avventure, le bambine no.

CARTONI ANIMATI

“Frozen” è stata una vera rivelazione per le famiglie e per la Disney, che finalmente ha potuto riscattarsi da decenni di principesse che aspettavano il principe per essere salvate. Fought e Eisenhauer, due linguiste della North Carolina State Universityhanno esaminato dodici classici Disney prodotti tra il 1937 e il 2013.

Hanno rilevato che i personaggi femminili hanno in media meno linee di dialogo rispetto a quelli maschili. In “Frozen”, che ha ben due protagoniste, si arriva solo al 41%. Mentre le principesse “datate” hanno più linee di dialogo rispetto a quelle recenti: Biancaneve e Cenerentola recitavano rispettivamente circa il 50% e il 70% delle battute dei loro film.

Attraverso questi prodotti culturali, educhiamo le bambine e i bambini all’abitudine di ascoltare meno la voce delle donne.

Le bambine e i bambini non nascono amando il rosa o il celeste, i giocattoli da femmina e da maschi. Ad un certo punto, lo imparano attraverso un insieme di prodotti, comportamenti e linguaggio che creiamo tutti i giorni in modo più o meno inconsapevole.

FONTI ED APPROFONDIMENTI

Gender stereotypes about intellectual ability emerge early and influence children’s interests

Gender bias in education

Differenze di genere nei risultati educativi

Frozen Mouths: Disney Heroines Get Way Less Talk Time Than Male Characters

The Long, Sexist History of ‘Shrill’ Women

CONSIGLI

“Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta” di Rossella Ghigi


Articolo scritto da Anna Delli Noci, immagine di Marina Ravizza.

Come un animale arrabbiato che non vuole stare lì. L’endometriosi.

Endometriosi:​ il nome di questa malattia deriva da “endometrio”, il rivestimento interno dell’utero. Parliamo quindi di una malattia che interessa la femmina, e in particolare che ha come punto focale, anche se non necessariamente unico, l’apparato riproduttivo femminile e tutto ciò che è ad esso legato o da esso è influenzato.

Ricominciamo: l’endometriosi è una malattia che tocca la vita, che ti costringe a letto e no, non è una scusa per saltare l’interrogazione, che ti pianifica i giorni senza che tu possa aver tanto da dire sul calendario, l​’endometriosi è saltare la gita a Parigi in quarta liceo perché sai che ti verranno le mestruazioni e non ce la farai. È svenire in viaggio, è programmarsi la vita, è un blackout di dolori, nausea, impotenza e sangue sui jeans anche con tre assorbenti. Che, quando è giunto il momento di scegliere di avere un figlio, potrebbe avere molto più peso del tuo desiderio.

Le cellule dell’endometrio, durante il normale ciclo mestruale, attraversano varie fasi nelle quali l’endometrio modifica il proprio spessore. L’endometriosi si verifica quando queste cellule si trovano all’esterno dell’utero, per esempio ovaie o altri organi, più frequentemente addominali ma non solo. La presenza di queste cellule crea una condizione cronica di infiammazione, che debilita a vario livello la donna che ne soffre. Quando invece la crescita anomala di cellule endometriali avviene all’interno dell’utero, solitamente con infiltrazione della parete muscolare, si parla di adenomiosi​. L’associazione tra endometriosi e adenomiosi è ​sempre più documentata.​

Ricominciamo: l’endometriosi è sentire che una parte di te così importante, che volente o nolente ti caratterizza nella tua fisicità, almeno quella biologica, ti si ribella contro, come un animale arrabbiato che non vuole stare lì. È combattere con la femmina dentro di te, cercare una strada per ritornarle amica e non sempre trovarne una.

Non tutte le donne che hanno l’endometriosi (si stima siano il 10-15% delle donne in età riproduttiva) ne soffrono in maniera grave e la sintomatologia più variare di molto. Tra i sintomi più frequenti, infertilità o ipofertilità (30-40% dei casi), rapporti sessuali dolorosi, mestruazioni dolorose, dolore pelvico, stanchezza fisica, intestino irritabile, gonfiore addominale, stitichezza, nausea, cefalea. La malattia ha tantissimi livelli di gravità, anche se principalmente viene classificata secondo la stadiazione dell’American Fertility Society adottata anche dal nostro sistema sanitario, che ne riconosce 4 stadi. La classificazione però è ​spesso considerata parziale,​ perché si basa esclusivamente sulla rilevazione chirurgica della malattia e non su altri esami diagnostici (come risonanza magnetica ed ecografia transvaginale) e non riesce a valutare la “endometriosi profonda”, una forma di infiltrazione molto invasiva, valutata invece dalla classificazione Enzian. Sembra tutto un po’ vago? Lo è: nonostante la sempre maggior consapevolezza di medicə, ricercatori, ricercatrici e donne, l’endometriosi rimane una malattia sfuggente, che richiede molto spesso anni e anni (in media addirittura 9) per venire diagnosticata.

Ricominciamo di nuovo: anni e anni di “eh purtroppo ti tocca”, “sei fatta così”, “anche io, anche la nonna”, fino a quei terribili commenti che ti fanno credere sia tutto nella tua testa, o sia tu la debole, quella che le basta un niente per star male, quella che esagera. ​Poi, un giorno, perplessa e confusa, mentre un sintomo più grave del solito ti spinge a cercare forsennatamente su Internet tutte le alternative, finalmente un consulto con un medico specializzato ti permette, forse quasi con sollievo, la scoperta che tutti quei malesseri hanno un senso. E poi inizia una strada nuova.

L’approccio terapeutico all’endometriosi è principalmente di due tipi: chirurgico e medico. Stiamo parlando di una malattia cronica, il che significa che non c’è una cura definitiva, e la scelta di come procedere è legata a talmente tanti fattori che dare una descrizione generale di questo aspetto riesce difficile, e pericolosamente imprecisa. Si va dalla laparoscopia, considerata il “golden standard”, a vari tipi di terapie ormonali che hanno soprattutto lo scopo di controllare la malattia, all’uso, naturalmente, di antinfiammatori e antidolorifici per garantire uno stile di vita più accettabile. Anche l’alimentazione è una dimensione che sta acquisendo sempre più importanza, tant’è che la Fondazione Italiana Endometriosi comunica sul proprio sito una serie di i​ndicazioni alimentari​ molto precise.

L’endometriosi tocca tutto, alcune persone delicatamente, altre con mani pesanti di gigante. A volte quel gigante sembra proiettare la sua ombra ovunque. A volte, invece, è un gigante sulle cui spalle possiamo salire, per vedere che no, non siamo solo la nostra malattia, il nostro dolore, la solitudine che ci abita dentro. La ricerca prosegue, la consapevolezza evolve, e resta la cosa più importante: non siamo più sole.

Link Utili:

Pagina dedicata del Ministero della Salute
Fondazione Italiana Endometriosi
Centro nazionale endometriosi del gruppo Malzone
Pagina dell’American Society for Reproductive Medicine Articoli sulla classificazione Enzian dell’endometriosi profonda


Articolo e immagine di Mariachiara Tirinzoni.

Scienza e stereotipi di genere: come parliamo delle scienziate da Nobel.

La scienza è una “cosa da uomini”, si sa. Le donne sono sensibili e affettuose, la scienza è dura e fredda. Le donne rappresentano la soggettività, mentre la scienza è oggettiva, come gli uomini. Le femmine sono creative, adatte alle arti e alla letteratura, la scienza lasciamola alla mente tipicamente logica, quella maschile. 

Questi sono solo alcuni dei pregiudizi che, per secoli, hanno tenuto le donne lontane dal mondo della scienza, o – per meglio dire – che hanno tenuto il mondo della scienza lontano dalle donne. In Europa, infatti, fino alla prima metà dell’Ottocento, le persone di genere femminile non potevano iscriversi all’università. E per le pochissime scienziate emerse nel corso della storia la vita è stata difficilissima: la società le ha discriminate, scoraggiate e oscurate in ogni modo. D’altronde, quante di loro avete studiato nei libri di scuola?

Fortunatamente adesso non c’è nessun divieto: la parità formale l’abbiamo raggiunta. Una donna, se vuole, è liberissima di iscriversi alla facoltà di Ingegneria. Però i dati ci dicono che comunque le ragazze, pur essendo libere di farlo, mediamente non lo fanno lo stesso. Secondo un rapporto del 2019 del MIUR le donne erano il 27,4% delle persone iscritte ai corsi di laurea in settori ingegneristici e tecnologici. E quello dell’ingegneria è solo un esempio: questo tipo di fenomeno, detto “segregazione orizzontale”, è infatti presente in tutti gli ambiti scientifici.

Ma perché? Se le donne adesso sono libere di scegliere, perché non scelgono la scienza? La risposta è che non basta non vietare loro di iscriversi a facoltà scientifiche. Le bambine e le ragazze fanno fatica a vedere sé stesse come scienziate in una società in cui i media dicono loro, più o meno implicitamente, che forse sono più adatte a fare altro. A studiare la letteratura, nel migliore dei casi. A cucire e fare bambinə, nel peggiore.

Attualmente la questione non sembra più riguardare divieti esterni ma collocarsi piuttosto sul piano della rappresentazione

scrivono Liliana Moro e Sara Sesti in “Scienziate nel tempo”.

Per la mia tesi di master in comunicazione della scienza ho deciso di indagare su quali siano attualmente le differenze nella narrazione degli scienziati e delle scienziate veicolate dai media (in particolare dai giornali online). Ho preso come esempio l’annuncio della vittoria del premio Nobel per la chimica 2020, andato a due donne, Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, e l’annuncio della vittoria del premio Nobel per la medicina 2020, vinto da Micheal Honghton, Harvey Alter e Charles Rice, tre uomini. Facendo una ricerca per parole chiave, ho notato un po’ di cose interessanti. 

ESSERE UNA DONNA NELLA SCIENZA FA NOTIZIA

Una delle cose che ho scoperto è che, negli articoli che avevano come protagoniste le due scienziate premio Nobel, comparivano più volte parole che rimandavano al genere femminile, cioè “donna” e “femminile”. Di contro, le uniche volte in cui negli articoli ricorreva la parola “uomo” era per indicare l’umanità in generale, non il genere maschile dei vincitori. In uno degli articoli presi in considerazione per l’analisi, in particolare quello del Corriere.it, il fatto che le vincitrici del Nobel per la chimica fossero “due donne” è specificato addirittura nel titolo, dove viene posto anche l’accento sul fatto che sia “la terza volta” che questo accade.

Questo fa pensare che uno dei topic degli articoli dedicati alle due scienziate fosse proprio il loro genere. Ed è vero che da Marie Curie al 2020 le scienziate vincitrici di un Nobel sono state solamente 24, ma porre l’accento su questo aspetto, cioè sull’eccezionalità dell’evento, non fa altro che perpetuare lo stereotipo che la scienza sia una “cosa da uomini” e che, se poi ci capita in mezzo qualche donna, è un fatto straordinario, notiziabile, che non rappresenta e non può rappresentare la normalità. 

Negli articoli di Repubblica.it, la giornalista si mostra stupita del fatto che a Doudna e Charpentier non sia stato associato anche il nome di un uomo, visto che a vincere il Nobel in una categoria possono essere fino tre scienziati:

è la prima volta che nessun uomo entra tra i vincitori di un Nobel. Per CRISPR non mancavano certo i candidati, e l’Accademia delle scienze avrebbe potuto aggiungere un altro vincitore: il massimo è tre”, scrive.

Ma forse non è così assurdo pensare che nel 2020 nessun uomo abbia meritato la vittoria del premio Nobel per la chimica, no? Il problema è che nell’immaginario della società sono gli uomini a dover occupare determinate posizioni in ambito scientifico e a vincere premi; se sono le donne a farlo, sembra assurdo, strano, anche un po’ fastidioso.

LA DONNA NELLA SCIENZA È SEMPRE E COMUNQUE MAMMA

Altri termini che ho cercato sono quelli legati al ruolo genitoriale. E indovinate? “Mamma” e “madre” ricorrevano qualche volta, mentre “padre” e “papà” mai. Sarà un caso? Quello che penso io è che, nel nostro immaginario, la donna è sempre e comunque associata alla maternità, mentre la paternità non ci verrebbe mai in mente parlando di tre uomini che hanno vinto il Nobel per la medicina. “Mamma e nuotatrice”, per esempio, titolavano alcuni articoli dedicati ad Andrea Ghez, premio Nobel per la fisica 2020, come se ciò che più potrebbe interessarci di una scienziata che si occupa di buchi neri sia la sua prole o ciò che fa nel tempo libero. Ma anche quando è usato in senso figurato, ad esempio in “madre del metodo CRISPR”, il termine rimanda comunque al ruolo tradizionale che la donna rappresenta sempre, nello stereotipo, anche quando si sta parlando dei suoi successi accademici. Rappresentare le scienziate come prima di tutto madri è un modo per porre l’accento sulla loro vita privata e familiare, sminuendo o comunque facendo passare come marginale la loro carriera.

SCIENZIATA MA PURE CASALINGA E ATTENTA ALLA MODA

Leggendo gli articoli dedicati alla vittoria del premio Nobel per la chimica da parte di Doudna e Charpentier, quello che spicca subito all’occhio è il gran numero di metafore legate al mondo del cucito. “Taglia e cuci del DNA” viene scritto moltissime volte per parlare del metodo CRISPR, quello per cui le scienziate hanno vinto il Nobel. Le ricercatrici vengono anche chiamate “couturier”, termine francese che vuol dire “creatore di moda” e descritte come “eleganti” e “solari”. Insomma, gli articoli hanno descritto il lavoro delle scienziate attraverso metafore che rimandano al mondo della sartoria e della moda, carriere tradizionalmente femminili che ricalcano lo stereotipo della donna casalinga che cuce e rammenda, e che pensa ai vestiti, più che alla scienza.         

NON C’È SPAZIO PER IL CURRICULUM ACCADEMICO DELLE DONNE NELLA SCIENZA

Finora l’ho dato per scontato, ma ovviamente, leggendo gli articoli sui tre scienziati premio Nobel per la medicina 2020, questo tipo di metafore non si trovano. Anzi, cercando le parole “impegno” e “lavoro” si scopre che ricorrono più spesso negli articoli dedicati a Honghton, Alter e Rice. E si scopre anche che ai tre uomini sono dedicate più righe di curriculum, anche se tutti e cinque i premi Nobel hanno alle spalle una lunga carriera accademica. Forse potevamo aspettarcelo: se lo spazio degli articoli sulle scienziate è dedicato al loro essere donne, madri e casalinghe, non ne rimane molto per i loro successi accademici.    

Insomma, da quest’unico esempio si può già intuire che l’immaginario comune, veicolato dai media, vede le donne come meno portate per la scienza rispetto agli uomini. Raramente questo pensiero viene esplicitato, ma basta anche solo che lə giornalistə usino determinate parole piuttosto che altre, o metafore che evochino il ruolo tradizionale della donna, per contribuire a diffondere e perpetuare gli stessi stereotipi di genere che hanno tenuto le donne lontane dalla scienza nei secoli passati. E sono, poi, questi stessi stereotipi che minano all’autostima delle ragazze, facendole desistere dall’iscriversi a discipline scientifiche.


Articolo di Virginia Marchionni, immagine di Marina Ravizza.

Il futuro nelle nostre tasche

La moda “binaria” è piena di accessori e capi che necessitano di essere de-colonizzati da un certo tipo di pensiero, quello che ad esempio ci vuole ancora sexy ma dipendenti (vedi “slacciami/allacciami questa zip qui dietro”) o veloci ma non troppo (vedi i tacchi), ma la tasca, questo “add-on” all’apparenza così neutrale per la sua intrinseca funzionalità, nasconde un’insidia ben peggiore, una disparità spesso celata agli occhi dei più, del resto, come dice il detto: “il diavolo si nasconde nei dettagli”. 
Ho trovato perciò utile rileggere l’evoluzione delle nostre tasche, e posso dire di aver compiuto un vero e proprio viaggio nella storia della disparità. Un iter fatto di miscredenze, convinzioni limitanti e persino scelte politiche, dove la questione, guarda un po’, si gioca spesso su forme e dimensioni.  

LA STORIA  

Nel Medioevo uomini e donne sono uguali in quanto a tasche. Queste non esistono come propriamente le conosciamo, ma sono dei sacchetti legati alla cintura, portati esternamente. Nel XIII secolo la società rurale inizia a modificarsi e per paura dei ladri queste “tasche-borse” passano sotto i vestiti, accessibili tramite fessure strategiche nelle giacche degli uomini e nelle sottogonne delle donne. Le cose proseguono fino al 17esimo secolo, quando si iniziano a cucire le tasche direttamente nei vestiti e più vicine alla vita per un maggior controllo dei propri effetti personali. Le donne però restano fuori da questa innovazione: tecnicamente era considerato sconvenevole per noi nascondere le mani (se non per indossare dei fantastici guanti), per cui continuiamo ad affidarci alle sacche sotto i vestiti, che per altro trasportavano di tutto: monete ma anche utensili per fare a maglia, bottiglie, dolci, fazzoletti e forbici. Erano se non altro cucite intorno alla vita, e per carità, erano anche funzionali per la silhouette dell’epoca, se per “funzionale” intendiamo che dovevano sostenere un certo ideale di bellezza.

Ed è qui che il primo seme del vestire in modo “socialmente accettabile” si fa sentire, nascosto tra gonna e sottogonna, finché la Rivoluzione Francese arriva con una nuova batosta: mentre gli aristocratici si godono il loro primo streetwear mutuando i pantaloni dai sans-culottes, per le donne arrivano le silhouette slim che fanno tanto “futuro”, purché non si indossino tasche, né fuori né dentro. Secondo gli intelligenti dell’epoca, la donna aveva già quattro tasche naturali, il seno e i fianchi”, e poi così si teneva sotto controllo la rivoluzione (non potevamo “trafficare” materiale eversivo).

Ecco un secondo rinforzo negativo: non solo è sconveniente per noi nascondere le mani, è sconveniente avere qualcosa da nascondere.  Soprattutto perché le tasche portano con sé i retaggi della nobile arte della stregoneria.

Così questo “rifugio interno” lascia spazio alle borse, col contenuto ben esposto al pubblico così da dimostrare le buone intenzioni, dal momento che si trattava di reti (reticules) a cui si affiancano più tardi le chatelains, cinture a cui si attaccavano i nostri effetti personali (a me ricordano i charm), e sulle quali le influencer dell’epoca avevano già tirato fuori dei meme straordinari.

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Per completezza di informazione, la letteratura dell’epoca suggeriva di non abbandonare la tradizione e di continuare a usare le tasche. Un raro esempio in cui tornare al passato ci avrebbe regalato più futuro. Nel 1819 il libro “18 Maxims of Neat and Disorder” recitava con una certa ironia: ‘Discard forever that modern invention called a ridicule (properly reticule).’
Era forse troppo tardi. Già condizionate dalle proposte di stile dell’epoca, abbiamo dovuto aspettare la  fine del secolo per una nuova rivendicazione, con la nascita a Londra della Society for Rational Dress, che si opponeva ai corsetti e proponeva di usare pantaloni larghi per dare alle donne maggiore libertà di movimento, in particolare per andare in bicicletta. I vestiti auspicati dalla Society for Rational Dress avevano anche molte tasche, che erano ampie e permettevano di tenerci dentro le mani, un gesto considerato generalmente poco educato e femminile. 

Il ventesimo secolo segna la dicotomia borse/tasche: da un lato, possiamo truccarci e fumare in pubblico, per cui la borsa inizia a diventare un alleato di tendenza; dall’altro, viene portata avanti la questione sociale: circolano manuali su come cucire tasche sulle proprie gonne e arriva la prima ondata di suffragette, che rivendica la sua posizione nella società anche con l’abbigliamento. Le manifestanti indossano completi anche con 8 tasche, di cui molte nascoste, rivendicando un diritto naturale alla propria privacy che ben presto diventa il capo più virale del momento (qui il NY Times nel 1910).

Partita che sembra risolta dunque, grazie anche all’esplosione dei blue jeans tra le due guerre, ma una volta ottenuto il voto e deposti i lavori dei campi, queste “uniformi” perdono interesse, tanto che sembra che Dior stesso affermasse, nel 1954 che

“gli uomini hanno tasche per metterci qualcosa dentro, le donne per decorazione”.

La questione egualitaria si sposta sui capi più che sui dettagli, relegando le tasche a una posizione subordinata e per lo più estetica. Spogliate da ogni significato intrinseco, queste sono diventate sempre più piccole, fino ad arrivare a sparire del tutto nelle “fockets”, le tasche finte che hanno adornato jeggings e vestiti

Per riprendere con la stessa verve la questione delle tasche, delle loro dimensioni e del significato politico e sociale che hanno avuto nella gender parity dovremo aspettare il 2014, dove movimenti come “He for She” da un lato, e 6 generazioni di iPhone dall’altro, ci fanno tornare a interrogarci sul perché la moda ci voglia penalizzare. Ma il pensiero si è raffinato, e se prima la questione era “avere le tasche o meno”, qui ecco il problema dimensioni: secondo uno studio del 2018 le nostre tasche sarebbero ampie circa la metà di quelle degli uomini. Per dimostrarlo, si è misurata la capienza di telefoni e accessori di ultima generazione dimostrando come per noi sia difficile mettere questi oggetti in tasca senza che si vedano, scivolino via o cadano, col rischio magari di perderli per strada. 

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Fortunatamente questi semi non sono stati gettati al vento e molte donne hanno intrapreso iniziative ammirevoli e nuovi prodotti sul mercato volti a colmare il gap, come per esempio  Kings of Indigo, che propone jeans con tasche profonde come simbolo di uguaglianza salariale, o questo progetto su Kickstarter che nel 2019 ha raccolto 2540 sostenitori. Ci sono poi realtà, come HoldettePochePosh, che creano abiti con tasche, ed anche brand di workwear come Argentwork e Pivotte. La giornalista Eleni Aneziris invece, ha recentemente provato a correlare la dimensione delle sue tasche ai suoi livelli di produttività sul lavoro: dopo due settimane ha scoperto che la sua produttività effettivamente calava di un’ora e passa quando le tasche dei jeans che indossava non le permettevano di conservare agevolmente il telefono. Ha anche notato che la malsana abitudine di tenere gli oggetti in mano (anche se si ha dove metterli) ha bisogno di un bel po’ di tempo prima di essere rimossa, segno di quanto 300 anni senza tasche abbiano generato già solo nel nostro inconscio collettivo abitudini auto-limitanti rispetto alla nostra efficienza. 

Da qualche stagione, fortunatamente, la moda si gioca tutta sulle tasche: ci stiamo progressivamente approcciando alla non binarietà e la funzionalità sta soppiantando l’estetica “di un certo tipo”, segno che se la parità non è ancora conclusa la lezione è senz’altro appresa. Potremmo fare un discorso al contrario per le borse, e credo che molti uomini si troverebbero d’accordo.

E noi cosa possiamo fare, oggi, per contribuire a questo cambiamento?

  • Smettere di pensare che la femminilità non si possa esprimere al meglio in capi comodi e funzionali, anzi, creare dei rinforzi positivi nel nostro inconscio. Banalmente, predisporci mentalmente a fare e ricevere complimenti per un cargo pant e non solo per l’esclusiva tote bag. 
  • Pensiamo di più a noi e alla nostra comodità invece che a come fare “bella figura”.

Ma soprattutto… Scegliamo di comprare abiti con delle tasche adeguate! Smonteremo progressivamente il pensiero collettivo che ce ne ha voluto privare per ragioni di paura e controllo (e che ci spinge a tenere ancora il telefono in mano anche quando potremmo non farlo) e impareremo a silenziare quella voce interna che giudica sconveniente o “da maschiaccio” il nostro diritto a mettere le mani in tasca. 

“Che le tue tasche siano pesanti e il cuore leggero”.


Articolo di Nausica Montemurro, immagine di Marina Ravizza.

Periodica #2: storia di una mancata evoluzione.

Vi ricordate la faccenda dell’olio di palma? Lo abbiamo odiato e attaccato su ogni canale disponibile, ne abbiamo invocato il boicottaggio, e infine abbiamo vinto: oggi i nostri sonni sono tranquilli perché la scritta “senza olio di palma” campeggia rassicurante su quasi ogni prodotto da panificazione e dolciario della grande distribuzione. Magari non sapevamo esattamente cosa fosse ad indignarci così tanto – facevate parte del team che lo demonizzava in quanto dannoso per l’ambiente o per la salute? – ma la mobilitazione popolare nata contro questo ingrediente è riuscita a impattare le decisioni sull’approvvigionamento delle materie prime di grandi, medie e piccole aziende produttrici di prodotti alimentari.

Non so se il mondo sia migliorato o peggiorato senza olio di palma, ma sono fermamente convinta che chi paga per acquistare un prodotto abbia il diritto di esigere che questo sia il migliore possibile, e che chi produce debba investire in ricerca e sviluppo, per rispondere in modo soddisfacente alle necessità e aspettative del proprio cliente. Questo è vero specialmente in uno scenario come quello odierno, in cui ognuno di noi viene definito “consumatore attivo”, capace quindi di informarsi.

Vi starete chiedendo, ma su Periodica non si parlava di mestruazioni e dintorni? Come siamo finiti e finite in un’elucubrazione sul rapporto tra domanda e offerta? È presto detto: c’è un mercato che nel corso della storia si è evoluto pochissimo, pur rivolgendosi ad un numero di clienti in continua crescita che rappresentano più di un quarto della popolazione mondiale, un mercato che risponde ad un’esigenza e non a un capriccio: il mercato dei prodotti per l’assorbenza mestruale.

Vi presento quindi il secondo numero di Periodica dedicato alla (poca) evoluzione nel mondo degli assorbenti: una storia fatta di qualche colpo di genio e tanta tradizione perché, come ci insegna l’olio di palma, se non siamo noi clienti a esigere un cambiamento, difficilmente lo otterremo.

FREE BLEEDING NELLE CAVERNE

Come per la moda, anche per quanto riguarda i prodotti mestruali – e verrebbe da dire a maggior ragione – ci sono andamenti ciclici. Negli anni ‘10 del XXI secolo, alcune attiviste hanno portato alla ribalta la pratica del free bleeding come forma di protesta femminista contro il costo e le tassazioni dei prodotti mestruali (ci torneremo più avanti). First reaction: shock (cit.), ma a ben pensarci il sanguinamento libero è stata la prima forma di gestione delle mestruazioni nella storia dell’umanità. Le nostre antenate erano preistoriche, ma non certo sprovvedute. Per scongiurare agguati di animali attratti dall’odore del sangue, durante le mestruazioni si ritiravano in grotte, data l’assenza di prodotti destinati all’assorbenza. Secondo alcuni antropologi, le mestruazioni diventavano un’occasione di socializzazione tra donne, che trascorrevano i giorni del flusso insieme, realizzando pitture rupestri e decorazioni del corpo con il sangue mestruale e, immaginiamo, chiacchierando di tutto e di più come faremmo anche noi oggi.

ANTENATI IPER BIO DEI TAMPONI MODERNI

La storia dell’assorbenza vera e propria inizia con soluzioni molto ingegnose e paragonabili ai moderni tamponi interni; non esistevano infatti le mutande – invenzione modernissima – e mancava di conseguenza un potenziale appoggio per un assorbente esterno. 

Le pioniere dei tamponi furono senza dubbio le Egizie, che li realizzavano usando papiro ammorbidito e lino. Lo sappiamo con certezza grazie al ritrovamento del Papiro ginecologico di Kahun, il più antico testo medico conosciuto, risalente circa al 1800 a.C.. Contiene ben 35 paragrafi dedicati alla salute femminile, con focus su malattie ginecologiche, fertilità e persino contraccezione. 

I materiali favoriti in Grecia e a Roma erano invece lana e stoffa, che venivano inseriti con il supporto di bastoncini di legno, o utilizzati come bende agganciate a cinture legate in vita.

PEZZUOLE, CINTURE E GREMBIULI MESTRUALI.

Quelli Medievali furono tempi di soluzioni creative e persino brillanti per quanto riguarda la gestione delle mestruazioni: vengono chiamati Secoli Oscuri come conseguenza di una scarsa conoscenza del periodo, non per l’assenza di buone idee.

La moda delle signore abbienti dell’epoca era caratterizzata da abiti rossi, perfetti per nascondere eventuali macchie di sangue; per tamponare il flusso si utilizzava un particolare muschio (ok, questo è un po’ oscuro) ad alto potere assorbente. 

Tralasciando gli odorosi secoli del 1600 e 1700, in cui l’indicazione generale era quella di non lavarsi per evitare di aggravare i sintomi mestruali, approdiamo al 1800 per scoprire alcune novità nella gestione delle mestruazioni. Si utilizzavano cinture mestruali con tanto di fibbie e spille da balia per reggere stoffe e garze, equiparabili alle moderne versioni degli assorbenti lavabili, ma soprattutto fu introdotto il cosiddetto grembiule mestruale, un oggetto tanto buffo quanto ingegnoso. Ricordiamo che le mutande erano ancora un’utopia e che le cinture mestruali non erano poi così affidabili: fu per questo ideato un grembiule impermeabile da indossare sotto le gonne che, seppur scomodo e irritante per la pelle, permetteva di evitare di macchiare la seduta

ASSORBENTI USA E GETTA

Il 1896 fu il memorabile anno in cui Johnson & Johnson presentò sul mercato Lister’s Towels, il primo brand di assorbenti in cotone compresso usa e getta, che potevano essere utilizzati con una cintura mestruale ideata per l’occasione, o posati sulle mutande che, nel frattempo, stavano finalmente iniziando a diffondersi. Un prodotto simile veniva presentato in contemporanea in Germania dal brand Hartmann.

Purtroppo, nonostante le premesse per il successo fossero molte, entrambi i lanci furono dei buchi nell’acqua. Come raccontato nel primo articolo di Periodica, le mestruazioni sono un tabù che può influire sul modo in cui parliamo o ci comportiamo. Fu così che, nonostante questi prodotti potessero semplificare e migliorare la gestione dell’igiene mestruale, l’imbarazzo nel richiederli ai negozianti ebbe la meglio e ne sancì il fallimento

Furono alcune infermiere in servizio durante la Prima Guerra Mondiale a rendersi conto della maggior capacità assorbente del Cellucotton, una cellulosa di cui erano fatte le garze con cui si curavano le ferite dei soldati, rispetto al cotone compresso o alle stoffe utilizzate fino a quel momento per tamponare il flusso mestruale. L’azienda che la produceva, una volta finita la guerra, provò a riconvertire la propria produzione e vendere assorbenti, ma ancora una volta i tempi non erano maturi, principalmente a causa dell’imbarazzata reticenza delle clienti.

La soluzione si trovò negli anni ‘20 con un nuovo approccio distributivo self-service, basato sulla fornitura ai negozianti di scatole molto discrete in cui le clienti potevano inserire il denaro per gli assorbenti che, nel frattempo, erano diventati ancor più efficaci e comodi grazie all’introduzione del Kotex, ricavato dalla combinazione di cotone e tessuto. 

Queste novità contribuirono in maniera decisa alla diffusione degli assorbenti usa e getta – che si affiancavano a versioni di assorbenti lavabili molto simili a quelli proposti anche oggi – a partire dagli anni ‘50. In pieno boom economico, la possibilità di gettare dopo poche ore di utilizzo un prodotto era la dimostrazione di benessere economico e consumistico, che ancora non doveva scontrarsi con i suoi nefasti impatti ambientali. Al contempo, garantiva la massima comodità ad una donna che si emancipava tramite il lavoro liberandosi dalla più complessa gestione degli assorbenti lavabili. 

Da qui in poi gli assorbenti usa e getta si sono perfezionati tramite due migliorie sostanziali: la striscia adesiva sul retro presentata nel 1969 da Stayfree e che ha sancito di fatto il pensionamento delle cinture mestruali e la nascita delle ali negli anni 90, che hanno permesso di salvare dalle macchie innumerevoli mutande, tra le quali le mie di mestruata alle prime armi. 

TAMPONI MODERNI

La storia dei tamponi interni è strettamente connessa a quella dei materiali per gli assorbenti esterni, di cui erano inizialmente una semplice versione arrotolata. 

La nascita dell’assorbente interno moderno è legata al nome del dottor Earle Haas che, ispirandosi alle spugne mestruali, nel 1929 creò il primo tampone che poteva essere rimosso tramite filo, per poi brevettarlo nel 1931.

Il successo arriverà però con Gertrude Tendrich, imprenditrice di origine tedesca emigrata a Denver e portavoce di un po’ di sano girl power in questa storia, che comprendendo il potenziale del prodotto acquista nel 1936 da Haas marchio e brevetto per 32.000$ (circa 2,5 milioni di dollari odierni), per poi fondare l’impero di Tampax. Il successo è immediato specialmente negli Stati Uniti, dove il tampone interno con applicatore in cartone diventa la principale scelta per gestire le mestruazioni. Come vedremo nei prossimi numeri di Periodica, nel mondo le preferenze per i prodotti di assorbenza mestruale variano moltissimo a seconda di abitudini, cultura e credenze.

L’unico concorrente di Tampax è O.b. (letteralmente “senza assorbente esterno”, dal tedesco Ohne Binde) che nascerà in Germania nel 1947, definito tampone digitale per la modalità di inserimento senza applicatore.

Lo strapotere di mercato di Tampax e la presenza di pochi concorrenti, hanno portato alla conservazione dello status quo e a pochissime modifiche di questi prodotti negli ultimi 70 anni. Ma, al giorno d’oggi, oltre all’impatto negativo sull’ambiente, tipico di tutti i prodotti usa e getta, vi sono questioni impellenti circa l’opportunità di intervenire sulla composizione di qualcosa che viene inserito in una delle mucose più assorbenti del nostro corpo: la vagina. Il cotone che compone i tamponi infatti può essere coltivato con pesticidi se non certificato biologico e il rayon o la viscosa, fibre tessili semi-artificiali che si ottengono dalla polpa di legno rigenerata, vengono prodotti tramite procedimenti chimici. 

COPPETTA MESTRUALE

Lo dichiaro subito per dovere di cronaca: i contenuti che seguono sono storicamente accurati, ma anche e soprattutto una dichiarazione d’amore.

Caratterizzata da elementi evidentemente rivoluzionari, la coppetta mi ha cambiato la vita (al pari solo delle lenti a contatto) e ha reso il mio rapporto con le mestruazioni decisamente amichevole. Prima della coppetta c’era solo scomodità, irritazioni e un’infinità di mutande macchiate. Poi una decina d’anni fa, leggendo il libro Green Marketing Manifesto di John Grant in preparazione ad un esame universitario, ho scoperto che nel lontano 1932 era stato inventato un oggetto di cui non avevo mai sentito parlare prima e che prometteva tutto ciò che avevo sempre cercato: comodità e sostenibilità ambientale. Il mercato era meno vivace di oggi e non sono riuscita a trovare la coppetta mestruale in Italia, l’ho acquistata dall’estero ed attesa per ben due lunghe settimane: una volta arrivata, è stato amore a prima mestruazione. 

La storia della sua nascita è affascinante. Le prime coppette erano state ideate già a fine 800, ma fu l’attrice Leona Chalmers – che non poteva utilizzare l’ingombrante cintura mestruale sotto i costumi di scena – a brevettarne una versione del tutto simile a quelle odierne nel 1932. Il materiale era la gomma, in quanto il silicone medico non è stato usato fino al 2001. L’attrice pubblicò inoltre “The Intimate Side of a Woman’s Life”, manuale dedicato a mestruazioni e igiene intima, che non riuscì però a sostenere il successo della coppetta, che scomparve dalle scene fino a pochi anni fa, resa invisibile dai maggiori sforzi pubblicitari dedicati ai più lucrativi assorbenti e tamponi usa e getta.

Ancora oggi la coppetta, nonostante i suoi 100 anni di storia, è oggetto di preconcetti e timori. Una ricerca pubblicata nel 2019 dalla rivista Lancet Public Health, che ha esaminato a sua volta 43 studi precedenti, dimostra che questo prodotto è affidabile quanto un assorbente usa e getta, ma preferibile a livello igienico (anche nei Paesi del Sud del mondo con scarso accesso a misure igieniche), economico e ambientale.

Migliaia di anni di storia, miliardi di cicli mestruali, ed un grande tabù che ha minimizzato e censurato le conversazioni sulle mestruazioni e sui prodotti ad esse connessi. È così che ci troviamo oggi con delle versioni migliorate di prodotti che esistono in effetti da migliaia o centinaia di anni: assorbenti più soffici e profumati, tamponi più compatti (ma molto meno bio), e packaging più colorati che però continuiamo a nascondere. In un mondo che si trasforma quotidianamente e in cui la tecnologia ha un ruolo così pervasivo, colpisce che i prodotti per l’assorbenza mestruale nell’ultimo mezzo secolo abbiano visto avanzamenti di marketing, senza una vera innovazione.

Questo secondo articolo di Periodica si sta per concludere, ma l’evoluzione dei prodotti per l’assorbenza ha ancora tanta strada da fare per rispondere alle nuove esigenze, legate a maggior consapevolezza dei nostri corpi, delle dinamiche economiche legate al ciclo mestruale e dell’attenzione all’ambiente. 

Ogni corpo è diverso, così come diverse sono le nostre vite. Non c’è un prodotto che vada bene allo stesso modo per ogni persona che abbia le mestruazioni.

Per questo è importante conoscere (e far conoscere) le alternative presenti sul mercato, poterle provare e scegliere ciò che ci fa stare meglio, senza perdere di vista l’obiettivo di chiedere che siano fatti maggior sforzi per rendere i prodotti per l’assorbenza mestruale più comodi, sani, sostenibili e accessibili

Quest’ultimo punto è imprescindibile: esiste infatti una condizione denominata Period Poverty, che fa riferimento alla difficoltà o incapacità di far fronte all’acquisto dei prodotti necessari alla gestione della propria igiene mestruale.  

All’interno di un sistema consumistico e capitalista però, la possibilità di scelta è basata sulla capacità di acquisto, che stride con la natura di prodotti come assorbenti, tamponi o coppette: necessari ed essenziali per chi ha mestruazioni. 

Curios* di scoprirne di più? Tranquill*, lo approfondiremo nei prossimi articoli di Periodica.


Periodica è una rubrica a cura di Martina Palmese. Immagine di Alessandra D’Amico.

Ferocia e libertà – Le brigantesse del diciannovesimo secolo.

Tempo fa ero alla ricerca di una storia per realizzare il mio primo cortometraggio di finzione. Seguendo la mia idea di cinema, cercavo qualcosa di emotivamente forte, un pugno nello stomaco per chi lo avrebbe guardato, qualcosa che però allo stesso tempo aderisse al mio desiderio di rappresentare ruoli femminili diversi e meno stereotipati sullo schermo. È stato aprendo un libro di storia che mi sono imbattuta in un mondo di donne forti e combattenti che ancora non conoscevo e il cui fascino mi ha catturato immediatamente. Saprete certamente di cosa parlo quando dico “brigantaggio”, un fenomeno esploso nel diciannovesimo secolo. Pochi sanno, però, che tra quei briganti lì molte erano le donne, tanto da meritare un intero libro che le raccontasse, “Il bosco nel cuore” di Giordano Bruno Guerri:

“Nel Sud, dopo l’unità d’Italia, le donne hanno scoperto che la libertà poteva riguardare anche loro. Molti italiani che avevano creduto in Garibaldi si sono sentiti traditi da uno stato che non ha mantenuto le sue promesse e li ha abbandonati prima ancora di farli cittadini. Molti si sono dati alla macchia, in una rivolta anti-sabauda. E alcune donne li hanno seguiti. Donne dimenticate, ridotte nella memoria alla stregua di sbandate immorali e sanguinarie. Invece erano madri, mogli, figlie. Alcune schiacciate dal proprio destino, altre hanno divorato la vita, dimostrando il coraggio e l’intraprendenza di vere guerriere. Spinte dall’amore per un uomo o per un figlio, costrette dalla necessità a difendere il loro mondo. Animate da un dignitoso amor proprio, hanno imbracciato il fucile e si sono battute. Sono le brigantesse. (…)”

Sin dalle prime pagine, nonostante la drammaticità delle storie, ho respirato un’aria benefica di rivoluzione e libertà, e un eroismo femminile di grande potenza. Mi sono immedesimata in una donna del sud Italia nel 1800, letteralmente schiacciata dal patriarcato, dai codici d’onore e di comportamento che erano legge, e di conseguenza ho pensato a quale cuore da leonessa dovessero avere quelle che tra loro hanno fatto la scelta così folle, coraggiosa, irriverente, di mollare tutto e vivere tra i boschi, imbracciando un fucile, imparando a sopravvivere da latitanti. Perché le donne – in quanto donnenon diventavano solo criminali per la legge, ma perdevano totalmente l’onore davanti agli occhi della gente di quel tempo, facendo una scelta rischiosa, senza possibilità di riscatto. Tra l’altro, le storie lo testimoniano, a volte queste donne non godevano di grande rispetto nemmeno tra i briganti stessi, e alcune di loro hanno fatto una brutta fine, come Marta Cecchino. Un nome che non riesco a dimenticare, perché nel suo caso è stata proprio l’espressione più manifesta della sua femminilità a condannarla: la maternità. Dopo mesi trascorsi nei boschi insieme a suo fratello e agli altri della banda, Marta si era innamorata di un brigante da cui aspettava un bambino. Ma il suo compagno morì presto in un combattimento, lasciando Marta nel gruppo priva di protezione. Lo stesso fratello, durante una delle fughe, vedendola sempre più affaticata a causa della gravidanza, ne ordinò l’esecuzione. Marta fu uccisa con una fucilata alla schiena nel sonno perché con quella pancia era diventata un peso. Come se la sua gravidanza fosse una colpa.

Altre brigantesse condividono con Marta una tragica fine, ma le loro gesta vengono ricordate come leggendarie. Michelina De Cesare è una di queste. Una capobanda scaltra, coraggiosa, imprendibile. Più rispettata degli uomini. Fu lei la mente di strategie di guerriglia che portarono al successo numerosi saccheggi. Proprio perché forte ed eroica, fu la brigantessa che subì il pubblico ludibrio più infame: dopo che fu uccisa, le stracciarono le vesti e venne trascinata a seno scoperto da un carretto per tutto un paese. Esiste una foto famosa, orribile, che la ritrae. Umiliata soprattutto perché era una femmina che aveva osato sfidare con coraggio gli uomini, vivendo come loro, tra loro, mostrandosi addirittura migliore. Non riesco a non vedere in quell’umiliazione così meschina nient’altro che una vile paura dell’audacia femminile, castigata, in segno di ammonimento per tutte le altre donne.

È la storia personale di quelle donne a renderle brigantesse. Soprusi e crudeltà che non erano più disposte a sopportare e che le hanno spinte alla ribellione feroce. Francesca La Gamba era una filandiera che, ancor prima del risorgimento, rifiutò le avances di un ufficiale francese. L’uomo per punirla fece fucilare i suoi figli trovando una scusa. Francesca promise di mangiargli il cuore. Si unì ai briganti dell’Aspromonte finché tra massacri e fughe riuscì a ritrovarsi finalmente faccia a faccia con l’ufficiale. E mantenne la promessa.

Un’altra donna spietata fu Maria Oliviero, detta Ciccilla, moglie di un brigante. Le cronache del suo processo vennero scritte nel 1864 addirittura da Alexander Dumas, allora direttore de “L’Indipendente” di Napoli, e la fecero diventare la più famosa brigantessa del Sud Italia. I calabresi cantavano di lei “lu cori comu na petra”. Anche per lei tanta ferocia nasceva dall’aver accumulato una vita di soprusi, tradimenti. Era stata addirittura oggetto di rappresaglie da parte dei sabaudi quando il marito l’aveva abbandonata per darsi alla macchia.

Perché tutte queste donne in quel periodo trovarono finalmente il coraggio di scappare da una società che le reprimeva, al costo di pagarne le conseguenze con la morte? La mia personale opinione è che durante gli anni della spedizione di Garibaldi si viveva un periodo di transizione. Il Regno delle Due Sicilie, così come era conosciuto, si stava sgretolando insieme alle sue certezze, e questo diede coraggio a molte donne per ribellarsi.

Della storia di Niccolina Licciardi e Bizzarro, la coppia di briganti che ha ispirato il mio cortometraggio, non voglio svelarvi troppo ovviamente. Posso dire, però, che l’ho scelta tra così tante storie impressionanti perché in Niccolina ho visto innanzitutto una donna piena di quelle fragilità purtroppo tipiche delle donne vittime di violenza dei nostri giorni. In fondo, il legame relazionale tra un uomo e una donna si alimenta sempre delle stesse dinamiche, mette in gioco paure, rapporti di forza che sicuramente hanno qualcosa che trascende gli aspetti culturali e sociali di un tempo. Tragicamente, ci sono ancora uomini che vedono le donne come Bizzarro vedeva Niccolina, e ancor più tragicamente, ci sono donne che come Niccolina cercano la propria forza in un compagno, senza capire che in realtà loro quella forza ce l’hanno già dentro, ed è lì che devono cercarla.


Articolo di Serena Corvaglia, regista di “Mille scudi”, corto ispirato alla vera storia della brigantessa Niccolina Licciardi nell’Italia del 19esimo secolo.

Tra i premi fin qui collezionati: Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Fotografia alla Digital Media Fest; Miglior Film Giuria Popolare a Storia in Corto FF; Premio della Critica per il Miglior Film all’Ivelise Cinefestival; Miglior Montaggio al Gulf of Naples.